il mistero della traduzione

Qualcuno ha detto che tradurre è tradire.
I traditores erano presbiteri ed episcopi cristiani costretti, nei primi secoli d. C., a consegnare i testi sacri alle autorità romane, pur di aver salva la vita. Di qui il senso della parola “traditore” nella sua accezione svalutativa. Che però in senso stretto vuol dire: colui che consegna. Tradire è consegnare, come Cristo consegnato da Giuda, ma anche come chi svela non volendolo un’emozione. Tradurre in realtà è da trans-ducere, che è condurre da un luogo ad un altro e quindi anche da una lingua ad un altro idioma.
Ma per tradurre è necessario affrontare il rischio di tradire: per consegnare alla mia lingua nativa un’opera scritta in un linguaggio da me appreso (o imparato da piccolo e poi approfondito) devo portare il peso, raccolto in ogni singola parola, di una tradizione, di un ethos e nello stesso tempo farlo incontrare con un altra tradizione, un altro ethos. Dalla frizione tra questi due massi, nasce la scintilla della comunicazione tra culture, che è sempre in primo luogo comunicazione tra due individui: il poeta/scrittore e il suo traduttore.
I traduttori sono poeti tanto quanto i poeti, scrittori tanto quanto gli scrittori.

QUI l’omaggio a Svetlana Geier, che viene da alcuni considerata la più grande traduttrice di Dostoevskij in tedesco.
Da parte mia un omaggio alla grazia dell’intelletto femminile, oggi 8 marzo, Giornata Internazionale della Donna.

 

 

Giusto sul bordo

Anni fa l’associazione Macondo, quella che mi ha dato patria spirituale e intellettuale, aveva stampato una maglietta. Non ne ricordo esattamente lo slogan; parlava di speranza e di rassegnazione, della facilità di passare dalla prima alla seconda, mentre quella è infinita, questa è finita. Limitata.

Ho avuto modo di conoscere una persona che studia alle serali. Qualcuno che senza alcuna faciloneria possa dire: non ho tempo di studiare. Arrivando a casa dal lavoro un’oretta prima dell’inizio della scuola, di fatto ha a disposizione parte del week-end per concentrarsi sui libri.

Si fa un gran parlare di meritocrazia e di “ritorno al merito”. Tante belle parole. Qualsiasi personda dotata di senno non passerebbe gli sprazzi di tempo libero sui libri. Magari su di un libro. Ma su quelli scolastici, no. E a ragione. Questa persona lo sa e non si nasconde dietro un dito. Eppure – senza alcuna retorica -  è un individuo di merito, un individuo che merita. Che cosa?

Che ciò che lo circonda concorra ad un senso.
Certo, il senso è opera individuale, affidata a noi come singoli: la lenta costruzione di una direzione personale con cui dobbiamo ripempire i nostri occhi, originale bussola, per rimmeterci “in sesto”. Ma la fatica – perché di questo si tratta, checché ne dicano gli “adultoni” già sistemati – si quadruplica quando intorno appare tutto dissestato.

Posso aver intuito una stella che orienti il percorso. Ma si fa gelida e ancor più lontana se i parametri che ieri consideravo fermi, stamattina li trovo in cocci. Un coboldo si aggira per le nostre case e nottetempo spinge a terra le cose a noi care, poi si nasconde nello specchio e osserva la nostra faccia al risveglio.

Sono dissestato se constato che l’asse portante della filosofia, mia disciplina di insegnamento, e cioè la domanda, l’azione del domandare, non viene in classe evitata per superficialità, dabbenaggine o pigrizia (che son le prime cose che quando ci mastrocoliamo amiamo rinvenire nei ragazzi), ma perché si teme che l’insegnante “ritorca” contro qualcuno, interrogandolo, la domanda stessa.
Sono dissestato se constato che, nonostante il continuo quotidiano “aritmetico” sforzo, alcuni studenti non riescano a tener fede a pratiche minime di lealtà. Non a grandiosi proclami di fiducia reciproca. Non a solenni impegni in nome del dovere. A piccoli patti; al “siamo d’accordo che”. Che poi non è un accordo privato, ma un banale calendario concordato con l’intera classe.

Ecco. Il dissesto mi pare stia nella condanna che qualcuno ha deciso per questi ragazzi: dovete cavarvela da soli. Che non è la celebrazione delle capacità di autonomia. E’ il trionfo del “ci si salva da soli”. Non è il dover commerciare con la complessità del mondo; non è nemmeno il fallimento di orientamenti pedagogici varii, dal direttivo-autoritario al permissivo-libertario; non è il saggiare l’acqua della società fluida.
E’ la caduta delle ipocrisie dei nostri nonni, loro malgrado s’intende, che vivevano la dimensione della comunità per sentito dire, un copiaincolla di direttive ideologiche di una chiesa, di un partito, di un insieme di valori considerato talmente ovvio da essere spazzato via in meno di mezzo secolo. Avevano ascoltato un teorema pensadolo come giusto, non l’avevano mai davvero sentito.
I figli di quei nonni – che sono i padri e le madri di chi ho in classe – stanno in tre categorie: chi pensa che nulla sia cambiato, e arranca e si lamenta e insegna la rassegnazione; chi ha capito che nessuno ha mai creduto davvero alla favola del “vivere insieme” (poco importa se qualcheduno vi ha perso la vita o la salute) e quindi addestra i propri cuccioli ad essere animali solitari; chi non ha mai abitato un assoluto e adesso come allora resiste.

L’individuo è rassegnazione, la soddisfazione è rassegnazione, la grettezza è rassegnazione. La relazione è resistenza, la curiosità è resistenza, la passione-con è resistenza. Tra me e te, tra noto e ignoto, tra l’essere posseduto da una musa e il voler cercare insieme il linguaggio migliore: sempre e comunque la vita sta sul bordo.

la società della prestazione

A ben vedere, il semplice fatto di scrivere un post in un blog è allineato alla logica della prestazione: se scrivo è per render pubblico un pensiero, così che qualcuno legga e si ponga in accordo, in disaccordo o faccia i suoi distinguo. Ma, a parziale discolpa, i miei lettori sono meno di quelli manzoniani. Quindi in pratica scrivo per me.

Sempre qualora si debba rilevare una colpa, un’accusa del tipo: anche tu desideri apparire. Ebbene, sì. Ma non è una colpa: sto al mondo e obbedisco al mondo finché esso non mi costringa ad andare contro me stesso.

Chiamo logica della prestazione una delle possibili linee di forza con cui cercare di spiegare quanto ci circonda. Non ha la pretesa di dire la realtà, ma di offrirne una griglia interpretativa. Giudizio riflettente, lo chiamerebbe Kant. Secondo la LdP, ciascuno di noi è invitato ad agire non con l’obiettivo dell’azione stessa, ma con l’obiettivo di essere giudicato “a posto”, accettabile, degno di riconoscimento e di fiducia. L’obiettivo dell’azione non è realizzare quanto l’azione prevede, i mezzi migliori per un dato fine, ma è spostato: si punta qui, per ottenere un là. Per esempio potrei scrivere questo post non perché ne ho bisogno, o perché voglio gettar luce su un mio garbuglio mentale, ma perché così posso venir letto, commentato. Visto. Per esempio studio non per apprendere, ma per evitare un brutto voto. Gioco a calcio non per la mia passione per questo sport, ma perché così sarò preso in considerazione per una squadra più quotata. Lavoro non per trasformare la natura (sia essa materiale come spirituale) ma per conservare il mio posto, per soddisfare un capo, per pagarmi le rate dell’auto, per mantere alto il livello della qualità materiale di vita.

Il soggetto così non è il portatore dei mezzi verso un fine, e non è nemmeno – secondo il paradigma classico, l’attore della propria realizzazione. Il soggetto agisce per essere oggetto – visto, letto, guardato, riconosciuto o solo accettato. In questo il soggetto/oggetto mette la propria realizzazione. Non mi importa se quanto scrivo è logicamente argomentato, o concerne quanto più possibile la verità dei fatti: scrivo perchè di me si parli. Studio per evitare l’ansia del brutto voto, che genera delusioni in famiglia: quindi se questo è l’obiettivo, non mi interessa che l’azione dello studiare obbedisca a se stessa, perché possono esserci altri mezzi per evitare quell’ansia. Gioco a calcio per arrivare “in alto”, ma se posso arrivarci tramite una “spintarella” il gioco, letteralmente, è fatto. Per conservare il mio posto di lavoro posso anche reperire delle scorciatoie; per soddisfare un capo posso leccargli il sedere; per guadagnare di più posso cercare espedienti sotterranei o anche illegali. Di quel che è lo scrivere, lo studiare, il giocare, il lavorare – in sé – in fondo non mi dò pensiero.

Mi si obietterà che io sottointendo il fatto che ciascuna di queste azioni abbia una propria natura, alla quale posso obbedire o, nella LdP, non farlo. E mi si chiederà di dimostrare questa presunta essenza. Rispondo che non intendo affermare che esista il “lavoro in sé”, ma che esiste qualcosa che riconosciamo collettivamente come lavoro. E questo dovrebbe avere a che fare con una passione, una serie di competenze, un problema da risolvere e la scelta dei mezzi più efficaci per farlo. E così per le altre azioni. Nulla di assoluto, ma solo il tentativo di obbedire al mondo come lo abbiamo costruito e al linguaggio che usiamo per dirlo.

L’elemento deteriore in tutto questo, è che la LdP agisce in maniera carsica. Cioè siamo convinti ad accettare questo tipo di logica come quella ovvia, naturale. Qui sta l’abisso, il fatto cioè che sia la paura il movente ultimo. Se non sei così, sei fuori. La LdP diventa drammatica quando non è oggetto di scelta, di riflessione, di deliberazione. Perché in questa maniera non saremo mai portati a confrontarci con la responsabilità della nostra azione. «Non sono cattiva, è che mi disegnano così» diceva un cartone animato.

de-schola#5

Ilvo Diamanti ci va giù duro, su Repubblica.

Ora, se un ragazzo in età scolare legge la rubrica di ID, significa che è curioso e informato. E non ha bisogno dei suoi insegnanti.
Altrimenti, a chi è rivolto questo appello?
Al governo, perché si renda conto di quello che è davvero la scuola statale (e il sistema d’istruzione in generale).
Ai genitori, perché si rendano conto di quale modello sociale molti di loro più o meno direttamente supportano.
Agli insegnanti, perché si rendano conto che molti di noi sono cariatidi (ma non quanto ad età anagrafica) che reggono un edificio inutile e dannoso, perché è comodo lavorare solo al mattino e avere più di due mesi di ferie…

Qui una saggia risposta.

 

la scuola è ri-creazione

Questo video, che ho conosciuto attraverso un post del Post, è stato realizzato dall’Istituto Statale di Istruzione Superiore Enrico Fermi di Bibbiena.

Dateci un occhio.

Trovo che sia ben fatto e divertente. Il finale (prima dei titoli di coda) è significativo: la scuola per trovare un senso va lanciata verso l’esterno. Tutto l’essere che la abita deve, plotinianamente, esondare, per esser fecondo. Non c’è didattica senza divertimento: quando capiremo che la fatica fine a se stessa oggi non porta a nulla? Oppure rimarremo affezionati alla retorica dell’impegno? Perché, per questa creazione artistica non c’è stato impegno? O forse il problema è che nel video non compaiono né un autore latino, né una formula di matematica?

 

In memoria di Guido Petter (Luino, 1927 – Dolo, 24 Maggio 2011)

Io proseguo col mio insegnamento nel corso di laurea in psicologia, che si avvia a diventare una Facoltà. I miei rapporti con gli studenti sono sempre stati in tutti questi anni (e del resto lo erano anche prima) molto soddisfacenti, e talvolta addirittura splendidi (anche se vi sono stati periodi in cui mi sono augurato che all’impegno individuale nello studio si accompagnasse in loro una maggiore sensibilità per i problemi generali dell’universira e della società civile e un coinvolgimento più intenso, come era successo nel ’68 e come è accaduto poi anche altre volte, con un andamento ciclico, fino al movimento recente, vivace ma effimero, della «pantera»).

Continuo ad andare in bicicletta all’università, e non porto più in tasca una pistola. Non ve n’è più la necessità, e così mi servo solo degli strumenti che sono propri del mio lavoro, i libri, la carta, la penna, talvolta il registratore o la lavagna luminosa. Del resto, anche se tornassero tempi come quelli che ci siamo lasciati alle spalle, dubito che la porterei ancora, quella pistola.

Non credo però che torneranno, dato che la vaccinazione è stata generale e profonda. Ma dobbiamo tutti vigilare, e operare, perché le condizioni che hanno portato a quelle esperienze drammatiche non abbiano a ricrearsi nel nostro paese.

Oggi le emergenze che abbiamo davanti sono altre: la lotta contro la mafia, la lotta contro la non meno devastante «cultura delle tangenti». È su questo che dobbiamo mobilitarci, come al tempo della violenza eversiva, insieme ai giovani. Proprio i giovani, infatti, debbono poter credere in uno Stato giusto e democratico, e in una piena moralità della vita pubblica (e anche nella effettiva possibilità di difenderla)”.

(Guido Petter, I giorni dell’ombra. Diario di una stagione di violenza italiana; Garzanti, 1993; p. 183).

A Guido Petter, Partigiano,
difensore della liberazione e della giustizia,
osservatore e conoscitore dei bambini,
vero insegnante della Libertas Patavina.

Grazie.

de-schola#2 – interno giorno

«Scriva un libro, prof!». La voce è quella squillante del mio Sergente Nella Neve. Se mai potessimo calarci nei panni di Er, ne La Repubblica platonica, e scorgere il momento di scelta del proprio destino, so che vedremmo E. prender su la vita di un soldatino italiano, nella Prima o nella Seconda. Uno di quelli che ha dato tutto e poi è tornato sconvolto ma vivo e poi si è messo in testa di cambiare il paese, come Revelli ne Le due guerre. Insomma, E. parla con la voce del coraggio e se mi lancia questa provocazione non vuole solo mettere in pausa le mie elucubrazioni sulla scuola, ma anche invitarmi a far di più e meglio. A dimostrare che un senso una scuola ce l’ha ancora.

La mia tirata, tra una citazione hegeliana e l’altra – perché bisogna pur sempre obbedire al kantiano andareavanticolprogramma – nasceva da qualcosa che aveva corso carsico per tutta la mattinata. Una reazione della classe all’idea di interrogare, una risposta timida a proposito di persone che si offrivano e morta là. Anzi no. Qualcosa ruminava nei gangli della pancia. Ero uscito dall’aula sovrappensiero, con una lucetta illuminata sul cruscotto: il check automatico aveva segnalato un guasto. Già, ma dove cercarlo? Nella difficoltà di interrogare? Nella fatica del valutare? Nel voler concludere un argomento senza interruzioni? Nel secondo quadrimenstre che precipita? Nella temperatura della classe? Nella cravatta stretta? Nella borsa inutilmente pesante? Mah.

La grande luce, ad un tratto: la mia personalissima reazione è scattata di fronte a quella gentile timidezza. Giovani uomini e donne che hanno una soluzione sensata ed equlibrata e non la schiaffano in faccia al loro prof. Ancora una volta avevo paura della paura. Paura mia di fronte alla paura loro. Perché la timidezza non è che una sfumatura inizio/metà novecentesca della paura. Non sarà mica un timido, lei? Dice il superiore all’ufficiale deputato a vigilare in attesa dei tartari nel deserto buzzatiano. Si, avrei risposto. Ma tanto il militare non l’ho fatto e quindi che cosa parlo a fare. Timido io, nella mia insicurezza di insegnante, timidi loro nel doversi destreggiare in una selva di valutazioni-trappole.

Provare paura o rabbia. Emozioni umane troppo umane ma che per un accordo tacito un adulto maturo occidentale dovrebbe avere superato da tempo. Figuriamoci un insegnante, colui che deve istruire con fermezza d’animo, per definizione. Paura o rabbia non sono tollerate dal sistema, che chiede efficienza. E con sistema non intendo né colleghi o superiori, che a parlarci con pazienza a tu per tu si scopre – guarda un po’ – che s’intimoriscono e impauriscono pure loro; e nemmeno i ragazzi, la cui soglia di tolleranza è sempre più alta di quanto gli adulti non immaginano. Ma proprio una struttura impersonale, fondata su consuetudine e meccanismi inconsci, che si nutre del “si fa” e “si dice”, che s’abbevera dell'”opportuno”, del “utile”, del “necessario”, del potente “avresti dovuto”.

La cara Paola Mastrocola ama i ragazzi, lo si percepisce. Chiede che il sistema venga cambiato, cosa che qualunque insegnante appassionato sa e vuole. Proprio in nome di quell’amore, chiede che venga data la possibilità di studiare a chi desidera accoglierla. Nel breve colloquio con Fazio non ha potuto descrivere quello che vede, e ha solo elencato alcune conclusioni. Penso che possa trovarsi d’accordo su questo: questa scuola non istruisce alle discipline o al metodo, perché in sostanza e generalmente non propone contenuti e metodo. Propone continuamente strategie per condurre allo studio, un continuo ostinato lavoro metacognitivo o meglio ancora metamotivazionale. Si propone come schizofrenica: ti propongo cose che per accettarle e indagarle ci vuol la passione, ma non posso permettermi di impiegare la sola passione. E così i ragazzi non si allenano a confrontarsi con variabili essenziali (per il dopo) come l’interesse, la creatività o la responsabilità; ma continuamente sono portati a confrontarsi con la strategia migliore per non essere sommersi. A strategia rispondo con strategia.

Una versione leggermente modificata di questo pezzo comparirà sul prossimo numero di Madrugada, rivista dell’associazione Macondo.