Apologia della supplenza. Contro l’autoerotica dell’insegnamento.

Christian Raimo, Tranquillo prof., la richiamo ioIl divertissement di Christian Raimo (Tranquillo prof, la richiamo io; Einaudi, 2015) è ben poco giocoso. Si ride di gusto, è vero – come alcuni commenti hanno sottolineato, ma molto amaramente.
Il mio grave errore è stato quello di leggerne le prime cinquanta pagine subito dopo aver, nottetempo, corretto alcuni elaborati di filosofia: al magone per la sensazione di sconfitta, si è aggiunto il timore di essermi riconosciuto in alcuni degli atteggiamenti di prof Radar. Ho osservato il buio del soffitto per alcune ore. Ma, giuro, non ho telefonato a nessuno dei miei alunni, né scritto loro sms o mail.
Mi chiedevo quale potesse essere il punto di osservazione del prof. Raimo nel raccogliere le esperienze riscritte in modo iperbolico: racconti dei ragazzi? Dicerie della sala insegnanti? La propria vita di studente? Blog scolastici?

Leggo gli articoli di Raimo sulla scuola (per es. QUI, QUI2, QUI3) e apprezzo la sua capacità di tener fede al senso dell’insegnamento senza chiuder gli occhi di fronte ad un universo sociale che muta in fretta. Per me era chiaro, all’inizio, che egli non stesse parlando di sé, nel libercolo.
Poi ho pensato ad un saggio interessante, Generation Me, di J. M. Twenge (in Italia pubblicato con Excelsior 1881) e alla capacità della sua autrice di descrivere alcuni aspetti della generazione dei ventenni americani di qualche anno fa, a partire dall’osservazione secondo cui molti di essi sono comuni a tutti i nati a partire dagli anni settanta, lei compresa. Mi è tornato alla mente una sorta di insight apparso in classe (non stavo spiegando Leibniz – nemmeno io lo tratto – ma, sì, stavo spiegando di gran lena), quando mi resi conto che insistere sulle differenze tra i miei alunni e me sarebbe stato meno produttivo del cercare di cogliere le analogie tra di noi. Ho sempre creduto in quella che reputo la fondamentale asimmetria tra docente e discente, e tuttavia provare a comprendere se un certo sguardo sul mondo e sui suoi linguaggi non fosse poi così diverso tra me e loro, si è rivelato, e ancora lo è, un ottimo strumento per mediare i contenuti cosiddetti disciplinari.

E allora ho pensato che il prof Radar potrebbe essere la caricatura di Raimo: non perché quest’ultimo gli somigli (non lo penso), ma perché in Radar potrebbe aver voluto sommare i rischi che egli stesso ha corso e corre nel suo modo di voler fare l’insegnante. Leggo così il libro come una specie di spietata e sincera autoanalisi, nella quale portare alle estreme conseguenze, rendendole azioni reali e comportamenti ossessivi, intuizioni avute sul campo e poi, grazie a dio, lasciate correre. E questo mi riguarda.
Mi pare proprio socratica, questa capacità di trattenersi dallo sfruttare il potere/ruolo istituzionale del docente per scopi di auto-affermazione. E il daimon è invece proprio scomparso dall’animo di Radar, che non si trattiene di fronte a nulla e cerca, sempre e comunque, di emergere come il poeta della relazione didattica, colui che la fa, che la rende possibile, che la concede. Illudendosi e, parafrasando Allen, facendo scuola con qualcuno che si stima veramente.

Se guardo al di là delle pagine in cui Radar utilizza le tecnologie social per rompere l’anima ai suoi (?) alunni, con la pretesa di creare un linguaggio comune solo attraverso un medium condiviso, trovo qualcosa che mi pare valga per molti insegnanti, spesso ricercatori accademici preparatissimi e lontani da Radar: la pretesa che l’apprendimento dipenda unicamente da loro e che, parallelamente, il fallimIMG_20160306_221558ento sia addebitabile agli studenti.
Siamo in una fase pedagogica che ha digerito l’Attimo fuggente e ne ha scorto i limiti (che a ben vedere il regista considera in pieno) e forse suona ormai retorica la distinzione tra vasi da riempire e fuochi da accendere, riferita all’immagine di quello che potrebbero essere i ragazzi in classe. Eppure – se L’ora di lezione di Recalcati non è una pura operazione estetica – la potenzialità della passione del docente non può essere barattata con il mero senso del dovere. Radar (che io immagino alternativamente con il volto e la voce di Verdone o Albanese) è appassionato solo di se stesso, e in modo tristissimo: non ha punto passioni, patisce. E i silenzi dei ragazzi nelle telefonate (quelle in cui non riattaccano) suggeriscono una certa pietà per questo adulto dissestato.

I ragazzi sono il lato oscuro della forza di queste paginette e della scuola: lanciati sin da settembre verso l’esame di stato, fanno fin da subito loro stessi da supplenti a Radar, quasi disincantati nei confronti di un sistema istituzionale che non garantisce nulla e di fronte al quale estrema ratio è cambiare istituto. Si presentano seri e autonomi, nella gestione dei doveri quotidiani e dell’Autogestione. Per lo più freddi (del resto Radar lascia di ghiaccio), s’intuisce in loro la magica vibrazione della cultura nell’incontro con la supplente di Radar stesso, non solo capace di portare la classe a scavare, attraverso collegamenti e spunti densissimi, ma efficace nella spiegazione.  Il medium dei repertori on line e dei dispositivi tecnici fa da supporto/amplificazione ad uno spazio creato da altro, contagio tra passioni. Si tratta ancora di caricature? Logico pensarlo, specie per i disfattisti.

Fenomenologia dello studente liceale #1. L’Orsetto

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In ogni classe liceale, seduto in una fila non centrale, siede e osserva il mondo l’Orsetto.
Come i suoi simili, gli ursidi, l’Orsetto è dotato di una pelliccia folta, coda corta, ottimi odorato e udito. Si badi, la prima caratteristica non suggerisce si tratti di studenti di genere maschile, benché tra di essi si annoverino la maggioranza di Orsetti. Il pelo irsuto e abbondante è quel che tiene l’O. lontano dai più: non isolato, ma amante della solitudine, lo studente in questione non suole impiegare troppe parole per interagire con il resto della popolazione. E tuttavia, quando si esprime, rivela una certa autorevolezza, quasi che la mole intellettiva, tenuta nascosta nel tempo, si liberi a brevi tratti e rompa la dura scorza, creando immantinente fazioni di opinione nella sfera centrale degli animali d’aula, per lo più facoceri. L’O. è quindi opinion-leader, ma di questo non va fiero.

Se deve, parla, perché tirato in ballo. Ma non raccoglie ogni provocazione, anzi: quelle del Gufo vengono sistematicamente ignorate, perché eccessivo interesse dimostrato per questioni – diremmo – didattiche (invero, esistenziali), è causa di successive attenzioni, e quindi, va da sé, preoccupazioni. L’O. tuttavia è puntuale nel raccogliere al volo le istanze del suo animale gemello, il Salmone, di cui però si ciba. Ora, il Salmone – cui sarà dedicata analisi particolare – è spessissimo di sesso femminile. Diremo quindi, Salmona. Nell’interazione Orsetto-Salmona emerge evidente l’orsettosità che caratterizza il nostro.

L’O. infatti è tale perché dotato di grandi occhi espressivi. Si tratta di uno sguardo all’apparenza bonario, inoffensivo, non giudicante. E le Salmone spesso si affidano a lui, nei momenti di sconforto, in quanto ottimo ascoltatore, attento conoscitore delle dinamiche animali. Odorato preciso e udito implacabile sono caratteri maturati nel tempo, spesso a causa di esperienze determinanti, non facili, che hanno reso l’O in certo senso esperto di cose della vita. Ma non a suo dire, giacché vige comunque un ferreo understatement, tale da rasentare, agli occhi degli animali docenti, una bassa autostima. Ma è solo apparenza. L’O. conosce il proprio valore, ma lo dispensa con attento equilibrio, incurante delle osservazioni altrui. Di qui, la corda coda, mai di paglia, né agguantabile. Si noti, per inciso, che tale elemento distingue l’O. da un suo simile con cui viene facilmente confuso, lo studente Koala, campione invece di dipendenza da altri. La Salmone gode della presenza accudente del nostro, almeno finché costui non apre le fauci.

Il Gufo ritiene indispensabile l’alleanza dell’O. proprio grazie alle sue possibilità demagogiche, nonché per una certa sua curiosità terapeutica. E tuttavia non potrà richiederla, né corteggiarla. Il Gufo, anzi, non ha strumenti per ottenerla. Può solo sperarla.

Metter in ceppi le parole

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Terza liceo delle scienze applicate, entro in classe per un’ultima ora di un giovedì qualunque, e quindi abitato dall’ansia dei tempi stretti, delle interrogazioni, della dittatura del programma (nonostante la scuola delle competenze). Avevamo giorni prima affrontato la soluzione dei fisici pluralisti (il terzetto inseparabile di Empedocle, Anassagora e Democrito) alla cosiddetta aporia eleatica, e cioè ai limiti che il padre tremendissimo Parmenide aveva decretato per la filosofia a venire. Come render compatibile l’immobilità dell’essere con i fenomeni della natura, movimento incessante e creativo?

Con Democrito la questione si fa non solo più complessa, ma anche amplificata. Vive in un’epoca in cui le tematiche di ordine morale e politico sono tornate a far discutere, nelle accademie e nelle piazze. E’ l’epoca dei sofisti, la medesima che vede Socrate bighellonare tra i banchi del mercato. Saggiamente, quindi, il manuale in adozione fa un riferimento alla visione etica del fondatore dell’atomismo. In particolare, gli autori affidano alla nostra riflessione una frase lapidaria di Democrito: «l’anima è la dimora della nostra sorte».

Ora, passare indenni un’ora con ventidue sedici-diciassettenni che sono appena usciti da un compito di matematica rappresenta già di per sé una sorte avversa. Tanto più se si tratta di coinvolgerli in una questione di tipo morale (e politico) lanciata centinaia di anni fa.

Che fare? Se la frase è lapidaria – al limite dell’aforisma -, ho pensato, potrebbe essere interessante lanciare loro la provocazione di tradurre Democrito in modo altrettanto immediato. Del resto, ma la questione pur interessantissima porterebbe altrove, la pratica dell’ “esercizio spirituale”, chiave di volta in Hadot per spiegare la filosofia antica, non è poi così lontana dalle frasi che ogni giorno i ragazzi (e non) si scambiano sulle bacheche dei vari social network: piccole pillole di saggezza personale che ci ricordano qualcosa di essenziale per vivere meglio.

Prendete un foglio a quadretti – esordisco ingenuo. E contatene 140, come in tweet… E qui si è accesa la lampadina. Anzi, chi di voi ha un account Twitter può usarlo, così la macchina fa il conto per voi. Reazione immediata: ma prof, possiamo usare il cellulare in classe? Si. Siete ad uno scienze applicate? Ebbene, applicate.
Così ho comunicato il mio riferimento sul social e qualcuno si è iscritto al momento, di chi non lo fosse già. Solo due o tre persone hanno preferito comunicarmi la soluzione, che poi ho girato in un mio messaggio. Dopo aver al momento retweetato le loro parole, coinvolgendo @twitSophia_it ho riassunto poi il risultato in questo post su Tumblr.

La dinamica attuata è perfino banale. Ma la considero solo un inizio, che però ha qualche aspetto promettente. Un ragazzo giorni dopo mi scrive via email: «Prof, la mia spiegazione di democrito su twitter mi sta facendo guadagnare popolarità. O mio dio hahaha». Certo, possiamo aprire un dibattito sulla sovraesposizione narcisistica dell’individuo nell’era del web, ma non è qui il punto. Questa persona ha preso atto delle reazioni intelligenti ad una sua affermazione intelligente; ha sfiorato con mano il fascino delle cose ben dette.

E allora mi è venuto in mente Bacone, quando nel ragionare sull’esperimento e sul lavoro dello scienziato, parla di “mettere in ceppi la natura” per costringerla a rivelarci le sue leggi. Non succede lo stesso con il linguaggio, quando siamo inseguiti dall’esiguo numero di caratteri ammessi? Con la differenza che qui potremmo intuire qualcuna delle leggi che adoperiamo per pensare e parlare, e quindi essere indotti a formulare un piccolo ragionamento metacognitivo. Imparare ad imparare… Si dirà che di Democrito forse non ricorderanno nulla, o forse sì. Io ci provo, perché se Democrito mi suggerisce una cosa intelligente, forse varrà la pena ascoltarlo.

 

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Sabato 18 e Domenica 19 Ottobre, tra Santarcangelo di Romagna e San Mauro Pascoli, la Rete di Cooperazione Educativa “C’è speranza se questo accade a…” propone il suo IV incontro nazionale. Clicca sull’immagine per il programma.

Cara Ministra, non faccia alcuna riforma.

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Sul fatto che lei non abbia intenzione di sedersi comoda e guardare la scuola implodere non abbiamo alcuna incertezza, dunque non discutiamo nemmeno l’ipotesi. Ci si affaccia alla mente il dubbio che lei abbia voglia di provare a mettere in piedi una riforma. L’ennesima. Noi, se fossimo al suo posto, la tentazione la sentiremmo bella forte. Magari una riforma che abbia in primis lo scopo di far fuori le precedenti e alcuni dei deliri che le hanno caratterizzate.
Non lo faccia. Non faccia alcuna riforma della scuola italiana. Tanto meno una Grande Riforma. Non nel breve periodo, in ogni caso. Non abbia fretta, non cerchi qualche aggancio spendibile a breve tra le ultime parole d’ordine di moda tra chi si occupa di scienze della formazione. Non cerchi una formula a effetto (‘la scuola delle competenze’, ‘la scuola dell’inclusione’) destinata a durare al massimo un quinquennio.

Alberto Gaiani e Luca Illetterati interpellano la Ministra della Scuola, QUI.

 

Un genitore non sa

aperteNessun genitore deve volere il meglio per suo figlio. E sai perché? Perché non lo sa. Un genitore non sa cos’è il meglio per suo figlio. Non lo può sapere, come potrebbe? È Dio? Legge nella sfera di cristallo? No, è solo un genitore. E allora dovrebbe starsene a guardare e basta, in silenzio e con grande calma. Un po’ come si sta davanti al mare a guardare il mare. Cosa si fa davanti al mare? Si guarda il mare. Basta. Si accompagnano le onde con lo sguardo. Questo. Una per una. Come faceva il mio amico Malmecca con le foglie: le accompagnava, le prendeva in braccio un attimo prima che cade978880621546GRAssero. Le… accompagnava. Hai presente? Le onde che si frangono, le foglie che cadono, la canna da pesca che si piega quando il pesce abbocca… Così. Accompagnare. Anche i figli bisogna accompagnarli. Stare a guardarli, come le onde. […] Un figlio che non continua il padre spezza una linea. La rompe. È un elemento di rottura, un figlio così, si può dire? L’ho pensato spesso. Ma adesso non lo penso più. […] Dovreste essere curiosi, voi genitori. Molto curiosi dei figli. Dovreste morire dalla curiosità di vedere dove diavolo andrà a finire, quella linea spezzata che è partita da voi, e che si spezzerà ancora decine di volte nei secoli, con i figli dei vostri figli e i figli dei loro figli. Decine di volte! Invece, siete sempre così scontenti… Così incontentabili. Siete così privi di curiosità, voi genitori… Sembra che conosciate già tutto, che sappiate al millesimo che fine farà ogni cosa, ogni figlio… Non vi lasciate sorprendere. Non prevedete neanche la possibilità di una sorpresa. Peccato. Vi private di una grande felicità… “.

Alla parola “genitori” potremmo – dovremmo – sostituire/affiancare “insegnanti”. Un appunto da ricordare, per me, in entrambi i casi.

un(a) Filo lungo un anno

Sulla lavagna, orfana di gessi, la mano sudata traccia le parole di quella che possiamo chiamare una integrazione metacognitiva: l’operazione secondo cui si cerca di fissare non il contenuto appreso, ma i modo con cui lo si è appreso. La testa si guarda dall’alto, la cognizione si specchia, si fa speculativa.
Nella foto ci sono le parole della Terza A, che ringrazio: è stato un anno costruttivo.

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Mi pare interessante notare come il fuoco-sabba attorno a cui danzano le parole-streghe è l’idea-sensazione di pensiero divergente, di qualcosa che ha scompaginato l’ovvio, il normale. Beh, è l’effetto della filosofia greca, dove un altro mondo è stato possibile.

Se è vero che, seguendo la scia dei Barbari di Baricco, sempre più oggi prevale la velocità-in-superficie, e la categoria di “smart” è la più utile a comprendere come si muova la conoscenza, mi pare anche vero che la vecchia polverosa categoria dell’approfondimento, che non viene scalzata, oggi, ma solo messa nel mucchio, non se la passi poi male. Se è vero che tutte le alternative sono possibili, quella della profondità mantiene ancora un fascino particolare. E, sfruttando la contemporanea sensibilità estetica, non potrebbe succedere davvero che sia la bellezza a salvare il mondo?