La filosofia fuori di sé. La felicità è possibile nella scuola.

Quel che segue è una sorta di sintesi del progetto che, con un gruppo meraviglioso di studentesse e studenti dell’ultimo anno, abbiamo realizzato tra dicembre 2023 e dicembre 2024, in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin. Quel che segue ospita allora un azzardo: la filosofia può sopportare la contraddizione di parlare di felicità anche dopo la morte, senza ridere di essa. E’ un modo per dimostrare come la filosofia sia ancora possibile a scuola e come, con essa, si possa non chiudere gli occhi di fronte alla complessità del presente.

Propriamente nostalgia

«La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque»

Ci sono vari modi per fare filosofia, o per essere filosofi. Quel che mi è stato concesso, è di praticarla a scuola. E a scuola, vi sono altrettanti vari modi di far filosofia.
C’è quello rassicurante – storico e dossologico, la “galleria di opinioni”, la chiama Hegel, per cui “Talete è quello dell’acqua, Anassimandro dell’apeiron, Eraclito del fuoco”. A ciascuno la sua parolina, il suo posto, come barattoli al supermercato. C’è quello dinamico – smart – che si fa concreto soprattutto negli esperimenti di debate, di dialettica muscolare. Quello per cui, si dice, la competizione è la più alta forma di collaborazione.
Tutti hanno punti di forza e tutti sono impiegati con fecondità.
Eppure, se posso, inizio con una poesia e accetto che il discorso si faccia scivoloso, perché i poeti, sapienti di emozioni, sanno giocare con le parole e dunque manipolare. Ma da essi, i filosofi hanno imparato una cosa di importanza capitale, che è proprio quella di scegliere le parole da usare. Nel poeta nessuna parola accade a caso.

Chiedo a Novalis in prestito questa parola e la prendo con me. Nostalgia. Perché prima di tutto so che alcune ragazze e alcuni ragazzi mi mancheranno. Mi mancano di già. E mi mancano le scuse per riveder i loro volti.
Uso Novalis per iniziare, al terzo anno, il percorso della storia della filosofia. Novalis e poi l’interpretazione di Heidegger: la totalità come bisogno di una filosofia che è malattia, che non può fare a meno di cercare. E poi il kosmos greco, quindi l’arché. In quelle prime precarie spiegazioni, gioca un poco ogni volta la nostalgia per le lezioni di chi, all’università, mi ha fatto conoscere queste cose. E’ un passaggio di testimone, forse.

Iniziare con la nostalgia è tuttavia prendersi un impegno, o meglio: fare una promessa. È stabilire un patto con la classe e impegnarsi in prima persona. Ciò che faremo insieme dovrà avere un senso per me, per voi, per noi. Ciò che potrebbe soffiare in questo spazio che è aula è aria diversa, sensazioni da ricordare. Parrà forse insensato ai cinici e ai codardi, quelli che scordano che chi c’è davanti non rimpiangerà le alte torri della verità, ma la fertile pianura dell’esperienza.

Filosofia tra tutte

La domanda quindi è lecita: che c’entra la nostalgia con la scuola? La prima cosa che ci torna in mente degli anni delle superiori sono le nostre compagne e i nostri compagni, le situazioni ironiche o assurde, le pessime figure, la fatica in fondo fatta insieme. Potremo mai avere nostalgia di una verifica di matematica o di storia? Può darsi, ciascuno ha le sue perversioni. Più facilmente, potremmo avere nostalgia di una gita, di una partita di pallavolo contro quelli di 5B, di un lavoro fatto in gruppo, di un dibattito, di un momento in cui in aula ci si è parlati liberamente e col cuore.
La filosofia è necessariamente una materia tra le materie – fa parte della logica dell’istituzione scolastica. Ma non è solo tale. Si badi, questo vale per ciascuna disciplina. La filosofia non è più di qualcos’altro. Semplicemente, sa di non esser di più. Questo è il suo di più. Ora, le discipline diventano altro da materie nell’orario settimanale, quando cogliamo il fatto che chimica o storia dell’arte, elettrotecnica o geografia, matematica o filosofia sono anche e soprattutto linguaggi per comprendere il mondo, per costruire e decostruire il mondo.

«Rifare il mondo, dopo il discorso devastante del mercante», dice Turoldo.

Talvolta, alla fine della quinta ora, mi resta questo briciolo di certezza: non si tratta più di spiegar loro il mondo, quanto piuttosto di capirlo insieme a loro. O la scuola fa sua questa urgenza, o andrà a scomparire per come l’abbiamo conosciuta. Ma, se fa sua questa esigenza, andrà a scomparire per come l’abbiamo conosciuta, perché il come l’abbiamo conosciuta oggi è insufficiente e della scuola per il come l’abbiamo conosciuta non dovremmo avere nostalgia.
Non è un vaticinio, né una minaccia; è una speranza.

Ragionevole speranza

Il Fedone è il dialogo della speranza, vissuto da Socrate mentre il veleno serpeggia e fa il suo implacabile effetto. E’ il dialogo in cui il filosofo e i suoi compagni sperimentano tutti i limiti della logica e in cui si capisce che l’unico modo per vivere il silenzio spettrale della morte è quello di non cederle parola, cioè di cercare ancora parole, ma in altro modo.
Il motivo per cui siamo giunti a questo punto è la morte – puzzolente bastarda, la chiama Hemingway, quando ne avverte l’alito. La morte di Giulia non è stato un pretesto: ragazze e ragazzi, con modalità diversissime, hanno avvertito più che di fronte ad altri, cosiddetti, fatti di cronaca, che qualcosa bisognava fare. Ragazze e ragazzi, sin dalle classi prime, hanno accettato di fermare tutto per mettersi a parlare, accompagnati non da adulti, ma dalle loro compagne e dai loro compagni di quinta. Queste ultime e questi ultimi hanno ragionato su come aprire il discorso senza imporre risposte, su come raccogliere balbettìi e proteste, sofferenze e perplessità. Non ci sono state esperte o esperti, ma solo persone, ciascuna delle quali è di certo la più esperta della propria vita.
Così, l’unico modo per vivere il silenzio della morte è, ad Atene migliaia di anni fa come per noi, quello di parlarne e di parlarsi. Quando mancano la spiegazioni, l’unica via è quella di cambiare linguaggio e cantare insieme – o rivolgersi agli dei se volete. Questo fece Socrate.
Di fronte alla morte del pensiero che l’istituzione-scuola spesso produce, l’unica possibilità è cambiare linguaggio.
Di fronte alla morte di Giulia, l’unica possibilità è stata quella di cambiare linguaggio.
Cambiarlo significa tornare a dargli peso, tornare a ponderare le parole (violenza, patriarcato, ascolto, cura, indifferenza…) senza darle per assodate. Tornare a ricordare che ogni parola ha un sottofondo emotivo, una storia dietro.
Il cambio del linguaggio è stato quello di pensare assieme, di ascoltare/ascoltarci e accettare di non avere soluzioni. Non ha certo potuto alleviare in nulla il peso che grava sui cuori della famiglia di Giulia, e tuttavia, proprio nel rispetto e sulla scia di come essa intende dare fecondità a questa morte, il silenzio della paura non ha prevalso.
La filosofia è tornata alla domanda senza risposta – non vuol dire che non ne abbia, di risposte, ma che possa cercare un senso senza imporle, pur con la sua tragica urgenza di trovarle. «Quando la ragione nacque, nei bei giorni di Grecia – dice Maria Zambrano – fu la depositaria, il veicolo della speranza».

Comune praxis

Abbiamo cercato un senso, e lo abbiamo cercato insieme. I cinici e i codardi, ancora loro, diranno che è insufficiente, che è forse impossibile. Nelle nostre aule serpeggia quel risentimento che Nietzsche, spiega Deleuze, ha cercato di stanare: è quell’atteggiamento per cui, per dirsi buoni, prima di tutto si ha bisogno di individuare “i cattivi”, ciò che è sbagliato, quel che non funziona. Una versione impoverita e volgare della dialettica spinge molte e molti di noi a cercare la rassicurazione di non-essere-come-loro, a sprecare energia in uno scetticismo disperato. Platone non intende arrestarsi al dolore e al silenzio della morte del maestro e, per bocca di Cebete, invoca: «Socrate, prova a convincerci come se effettivamente avessimo paura, e anzi, come non fossimo noi ad aver paura, ma piuttosto quasi che vi fosse in noi un bambino terrorizzato da queste cose. Cerca, quindi, di dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio». E’ solo una suggestione forse, ma penso che l’intero sistema platonico nasca dal canto conclusivo di Socrate, nel Fedone. Quasi una ninna nanna per accompagnare i bimbi nel sonno della notte.

Aristotele dimostra che la felicità è nel pensiero, nel pensare, nella nostra capacità più autonoma. La Teoria è la più alta forma di Praxis e Praxis è vita. Certo, dice il Filosofo, si può far da soli, ma quando si fa insieme è forse ancora meglio. Mi affascina questo dubbio aristotelico, questo “forse” in cui si nascondono le ore in discussione con il suo maestro e con i compagni di scuola.
Anche noi abbiamo sperimentato questa forma di felicità nella filosofia. In sostanza, abbiamo camminato insieme.
«Quali radici hanno in noi pensiero e poesia? Ci interessa la necessità, l’estrema necessità, che le due forme della parola possono colmare. Qual è l’indigenza d’amore alla quale mettono riparo?». Così, ascoltando ancora Maria Zambrano, la parola conclusiva va a Fernando Pessoa, poeta:

Se potessi mordere la terra intera
e sentirne il sapore,
sarei per un momento più felice…
Ma io non sempre voglio essere felice.
Ogni tanto è necessario essere infelici
per poter essere naturali…

Non tutti sono giorni di sole,
e la pioggia, quando manca, la si invoca.
Perciò prendo l’infelicità e la felicità
naturalmente, come chi non si sorprende
che esistano monti e pianure,
che esistano rocce ed erba…

L’importante è essere naturali e tranquilli
nella felicità e nella infelicità,
sentire come chi guarda,
pensare come chi cammina,
e in punto di morte, ricordarsi che il giorno
muore,
che il tramonto è bello e bella è la notte che resta…
Così è e così sia…

Questo contributo è stato pensato per questo blog e per un monografico di Madrugada in uscita nel 2025

padre, David

Papa, amore ci ridoni al silenzio.
Dio è silenzio: muriamo
di pietra le porte del tempio
della cella, del cuore. Diremo poi
la sola parola
capace di spegnere l’incendio: dopo,
dopo i lunghi anni di silenzio
di amato, divino, salvatore
silenzio.

Papa, non sappiamo nulla
e ne sapremo ogni giorno di meno.
Nulla della vita, della morte
del tempo; nulla
della fine e del principio.
Forse gli uomini apprenderanno
ancor più dal silenzio,
da una vita murata in silenzio,
offerta, consunta
dal fuoco nel deserto
dell’abbandono e della “Non-curanza”,
il fiore del deserto tra le aride pietre.

Papa, non dire di quanto un uomo è responsabile
e poi lo espropri della sua coscienza. Non dire
di come Dio è coinvolto:
di fronte a un bimbo deforme,
irrimediabilmente deforme,
legittima è la bestemmia.

Papa, non dire di queste cose troppo alte,
di cosa è il tempo e la storia,
e ogni apocalisse e la profezia.
Soli o insieme lo Spirito ci guidi
a ritrovare il metro delle cose.
Ritorni il contemplativo,
uomo della misura: lui solo!

E dopo anni di benedetto silenzio
ritorni a dirci, lui solo
cosa veramente importa. – Ma dopo!

(David Maria Turoldo, + 6 gennaio 1992)

turoldo


Sulla collina

The Hill We Climb
When day comes we ask ourselves,
where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry,
a sea we must wade
We’ve braved the belly of the beast
We’ve learned that quiet isn’t always peace
And the norms and notions
of what just is
Isn’t always just-ice
And yet the dawn is ours
before we knew it
Somehow we do it
Somehow we’ve weathered and witnessed
a nation that isn’t broken
but simply unfinished
We the successors of a country and a time
Where a skinny Black girl
descended from slaves and raised by a single mother
can dream of becoming president
only to find herself reciting for one
And yes we are far from polished
far from pristine
but that doesn’t mean we are
striving to form a union that is perfect
We are striving to forge a union with purpose
To compose a country committed to all cultures, colors, characters and
conditions of man
And so we lift our gazes not to what stands between us
but what stands before us
We close the divide because we know, to put our future first,
we must first put our differences aside
We lay down our arms
so we can reach out our arms
to one another
We seek harm to none and harmony for all
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew
That even as we hurt, we hoped
That even as we tired, we tried
That we’ll forever be tied together, victorious
Not because we will never again know defeat
but because we will never again sow division
Scripture tells us to envision
that everyone shall sit under their own vine and fig tree
And no one shall make them afraid
If we’re to live up to our own time
Then victory won’t lie in the blade
But in all the bridges we’ve made
That is the promise to glade
The hill we climb
If only we dare
It’s because being American is more than a pride we inherit,
it’s the past we step into
and how we repair it
We’ve seen a force that would shatter our nation
rather than share it
Would destroy our country if it meant delaying democracy
And this effort very nearly succeeded
But while democracy can be periodically delayed
it can never be permanently defeated
In this truth
in this faith we trust
For while we have our eyes on the future
history has its eyes on us
This is the era of just redemption
We feared at its inception
We did not feel prepared to be the heirs
of such a terrifying hour
but within it we found the power
to author a new chapter
To offer hope and laughter to ourselves
So while we once we asked,
how could we possibly prevail over catastrophe?
Now we assert
How could catastrophe possibly prevail over us?
We will not march back to what was
but move to what shall be
A country that is bruised but whole,
benevolent but bold,
fierce and free
We will not be turned around
or interrupted by intimidation
because we know our inaction and inertia
will be the inheritance of the next generation
Our blunders become their burdens
But one thing is certain:
If we merge mercy with might,
and might with right,
then love becomes our legacy
and change our children’s birthright
So let us leave behind a country
better than the one we were left with
Every breath from my bronze-pounded chest,
we will raise this wounded world into a wondrous one
We will rise from the gold-limbed hills of the west,
we will rise from the windswept northeast
where our forefathers first realized revolution
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states,
we will rise from the sunbaked south
We will rebuild, reconcile and recover
and every known nook of our nation and
every corner called our country,
our people diverse and beautiful will emerge,
battered and beautiful
When day comes we step out of the shade,
aflame and unafraid
The new dawn blooms as we free it
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it
If only we’re brave enough to be it.

Amanda Gorman

Tutti

ESSI, TUTTI LO SANNO

Chiedete ai pittori da marciapiede di Parigi

Chiedete al sole su un cane addormentato

Chiedete ai 3 porcellini

Chiedete al giornalaio

Chiedete alla musica di Donizzetti

Chiedete al barbiere

Chiedete all’assassino

Chiedete all’uomo appoggiato al muro

Chiedete al predicatore

Chiedete all’ebanista

Chiedete al borsaiolo o al prestatore

Su pegno o al soffiatore di vetro

O al venditore di letame o al dentista

Chiedete al rivoluzionario

Chiedete all’uomo che ficca la testa

Nelle fauci d’un leone

Chiedete all’uomo che sgancerà la prossima bomba atomica

Chiedete all’uomo che si crede Cristo

Chiedete alla cutrettola che la sera torna al nido

Chiedete al guardone

Chiedete all’uomo che muore di cancro

Chiedete all’uomo che ha bisogno di un bagno

Chiedete all’uomo con una gamba sola

Chiedete al cieco

Chiedete all’uomo che parla bleso

Chiedete al mangiatore d’oppio

Chiedete al chirurgo tremante

Chiedete alle foglie sulle quali camminate

Chiedete allo stupratore o al bigliettario

Di un tram o a un vecchio che strappa le erbacce nel giardino

Chiedete a una sanguisuga

Chiedete a un domatore di pulci

Chiedete a un mangiatore di fuoco

Chiedete all’uomo più miserabile che riuscite a trovare nel suo miserabile momento

Chiedete a un maestro di judo

Chiedete a un guidatore di elefanti

Chiedete a un lebbroso, un ergastolano, un tisico

Chiedete a un professore di storia

Chiedete all’uomo che non si pulisce mai le unghie

Chiedete a un pagliaccio o alla prima faccia che vedete alla luce del giorno

Chiedete a vostro padre

Chiedete a vostro figlio e al suo figlio futuro

Chiedete a me

Chiedete a una lampadina bruciata in un sacchetto di carta

Chiedete ai tentati, ai dannati, agli stolti,

Ai saggi, agli adulatori

Chiedete ai costruttori di templi

Chiedete agli uomini che non hanno mai portato scarpe

Chiedete a Gesù

Chiedete alla luna

Chiedete alle ombre nel ripostiglio

Chiedete alla falena, al monaco, al pazzo

Chiedete all’uomo che disegna le vignette del “New Yorker”

Chiedete a un pesce rosso

Chiedete a una felce che balla il tiptap

Chiedete alla carta geografica dell’India

Chiedete a un viso gentile

Chiedete all’uomo che si nasconde sotto il vostro letto

Chiedete all’uomo che odiate di più a questo mondo

Chiedete all’uomo che ha bevuto con Dylan Thomas

Chiedete all’uomo che ha allacciato i guantoni di Jack Sharkey

Chiedete all’uomo dalla faccia triste che beve il caffè

Chiedete all’idraulico

Chiedete all’uomo che ogni notte sogna gli struzzi

Chiedete alla maschera di un baraccone

Chiedete al falsario

Chiedete all’uomo che dorme in un vicolo sotto un foglio di carta

Chiedete ai conquistatori di nazioni e pianeti

Chiedete all’uomo che si è appena tagliato un dito

Chiedete a un segnalibro nella Bibbia

Chiedete all’acqua che sgocciola da un rubinetto mentre

Squilla il telefono

Chiedete allo spergiuro

Chiedete alla vernice blu scuro

Chiedete al paracadutista

Chiedete all’uomo col mal di pancia

Chiedete all’occhio divino così mellifluo e lacrimoso

Chiedete al ragazzo che indossa calzoni attillati nell’accademia dispendiosa

Chiedete all’uomo che è scivolato nella vasca

Chiedete all’uomo azzannato dallo squalo

Chiedete a quello che mi ha venduto i guanti spaiati

Chiedete a questi e a tutti quelli che ho lasciato fuori

Chiedete al fuoco al fuoco al fuoco…

Chiedete anche ai bugiardi

Chiedete a chi vi pare quando vi pare il giorno che vi pare

Che stia piovendo o che sia nevicato o che stiate uscendo su una veranda gialla di sole caldo

Chiedete a questo chiedete a quello

Chiedete all’uomo con la cacca d’uccello sui capelli

Chiedete al torturatore d’animali

Chiedete all’uomo che ha visto molte corride in Spagna

Chiedete ai proprietari di cadillac nuove

Chiedete alle celebrità

Chiedete ai timidi

Chiedete agli albini e all’uomo di stato

Chiedete ai padroni di casa e ai giocatori di bigliardo

Chiedete ai cialtroni

Chiedete ai sicari prezzolati

Chiedete ai calvi e ai ciccioni

E agli uomini alti e a quelli bassi

Chiedete agli uomini con un occhio solo,

A quelli sempre arrapati e a quelli no

Chiedete agli uomini che leggono tutti gli articoli di fondo

Chiedete agli uomini che coltivano le rose

Chiedete agli uomini che quasi non sentono dolore

Chiedete ai moribondi

Chiedete a chi falcia il prato e a chi va alla partita di calcio

Chiedete a qualcuno (uno qualsiasi) di questi o a tutti questi

Chiedete chiedete chiedete e tutti vi diranno:

Una moglie brontolona affacciata alla ringhiera è più di quanto un uomo possa sopportare.

Henry Charles “Hank” Bukowski Jr.

Poche ossa, poca carne

COLLOQUIO NOTTURNO
(Davide Maria Turoldo)

E quando la notte fonda
ha già inghiottito uomini e case,
una cella mi accoglie
esule del mondo. Gli altri
nulla sanno di questa mia pace,
di questi appuntamenti.

Forse neppure io stesso
saprei rifare l’itinerario del giorno,
ripetere la danza del mio Amore.
Quasi nulla avanza di me
la sera: poche ossa, poca carne
odorosa di stanchezze,
curvata sotto il peso
di paurose confidenze.

Allora Egli mi attende solo,
a volte seduto sulla sponda del letto,
a volte abbandonato sul parapetto
della grande finestra. E iniziamo
ogni notte il lungo colloquio.

Io divorato dagli uomini, da me stesso,
a sgranare ogni notte il rosario
della mia disperata leggenda.
Ed Egli a narrarmi ogni notte
la Sua infinita pazienza

E poi all’indomani io, a correre
a dire il messaggio incredibile
ed Egli ferino al margine delle strade
a vivere d’accattonaggio.

(da O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1990, pag. 166)

Quasi una dichiarazione

0_eb441_fbef353d_origS’incontrano, anche nelle pieghe della Rete, le persone illuminate.
La loro luminescenza traspare dalle parole, quando raccontano la vita e la Storia.
Grazie ad Ornella, per questa sua dichiarazione.

 

Amo le svolte, spio le trasformazioni. Le vedo nella mia vita, imparo a riconoscerle intorno. Ho scoperto di essere “un soggetto” che all’improvviso si scopre “processo”,
come dice F. Jullien ( le trasformazioni silenziose).
Penso che oggi sia importante per tutti scrutare le trasformazioni:
in ogni campo e ad ogni livello. Per non cedere allo scetticismo,
non cadere nel disfattismo; ma anche per non irrigidirci dentro a schemi superati,
disegni già da tempo insufficienti a spiegare il mondo.

Architetto, ex insegnante di Arte, praticante di calligrafia cinese da nove anni (ci tengo),
ho la stessa età di Erri De Luca.
Sono nata lo stesso giorno di un ragazzo della primavera di Praga
morto in piazza san Venceslao.
In terza media ho fatto il tema sulla morte d Kennedy.
Alle elementari avevo fatto il dettato sulla morte di Arturo Toscanini.
Ero sveglia la notte dell’uomo sulla luna
A piazza Fontana ero passata qualche ora prima.
Ero incinta quando hanno ucciso Aldo Moro.
In via Fani, in via d’Amelio e a Capaci ci abbiamo portato i figli, perché sapessero.
Ho amato il greco, sognavo in latino
Ho creduto che l’architettura poteva salvare il mondo
Bauhaus e Le Corbusier
Stavo per andare a vivere in una comunità senza futuro.
Mi ha salvata Martini.
Ho creduto alle utopie. Alle Grandi Verità.
insieme alle utopie mi sono sentita crollare, mattone dopo mattone.
per anni.

Nel naufragio,
Impreviste zattere di salvataggio e stelle polari.
un giorno ne farò l’elenco ragionato.

Benedetto il naufragio
E le zattere
E le stelle.

Ho cambiato parole.
Ho perso: certezza, verità, assoluto, per sempre, universale, …
Ho guadagnato: fessure, tracce, contaminazioni, intrecci, forse, adesso.
Ho reinterpretato: bellezza, passione, responsabilità , onestà, libertà, …

Le cose adesso stanno così:
In pensione, come anche Federico, mio marito.
Nonni part time.
Nell’intreccio dei giorni, finalmente, un poco
anche il lusso di fare quello che ti sembra bene e che sai fare: ascoltare, appassionarti delle voci diverse (come accade nei viaggi), inventare intrecci, cogliere assonanze,
tentare collegamenti, aprire fessure.
Fidarsi dell’inutile (non come futilità‘, ma come gratuità),
coltivare bellezza (non come decorazione e abbellimento, ma come gesto, segno, visione, che rivela e convince). Appassiona.

“Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno sa l’utilità dell’inutile.” (Zhuang-zi)

Parola del giorno:
Fare bellezza è un compito politico.
Uscire dal vortice del negativo, dal disfattismo

Sto studiando la calligrafia cinese e la cultura orientale,
conquistata dalla dimensione etica dell’arte e del pensiero là, a oriente.
E’ ricerca, è purificazione, è consapevolezza.
Ciò mi rende più agile e leggera nel cercare di creare cose (arte?) dove non c’è chi produce e chi fruisce, o compra, ma dove si offrono occasioni per creare insieme, per cucire e sovrapporre, annodare, allacciare , intravedere, socchiudere.

Talvolta incontro compagni di viaggio.

Ricordo di Carlo Mazzacurati

Penso che poche cose come le interviste della serie Ritratti, con Marco Paolini, riescano a suggerire lo sguardo e la cura di questo regista. La sua capacità di non abbandonare noi veneti a noi stessi, alla nostra antica miseria contadina o alla pretenziosa ottusa operosità dell’ormai immobile “locomotiva”. Siamo lavoratori, ma con le mani e con lo spirito. Grazie, di cuore.