effetto telecomando

Al momento, dovrei soffermarmi sull’Aquinate. Tommaso, insomma. Essere e essenza, prove dell’esistenza di Dio, Deus Absconditus et cetera.
Il fatto è che ho la mania, compulsiva a tratti, di sbirciare Fb o Tw per curiosare e vedere che cosa fa il mio “micro mondo”.
Ecco: non dovrei farlo.

Non parlo di questioni di etica professionale, secondo cui, come qualcuno sostiene, è necessario che i professori non annoverino tra i propri contatti gli studenti, né di etica personale, secondo cui non dovrei proprio perdere tempo in quisquilie.

Si tratta di estetica, di teoria del gusto. Il fatto è che mentre al mattino, spremendo l’enorme agrume della storia e della filosofia, cerco di offrire ai miei studenti, con tanto di vassoio e livrea, un concentrato di provocazioni, illuminazioni (altrui), intuizioni… Durante il pomeriggio vedo molti di loro bearsi e beotarsi di riferimenti – veloci link su Fb, battute magrissime e autoreferenziali – che volutamente e consapevolmente raschiano sul fondo ambiguo del barile del linguaggio del Pop, intrattenendosi tuttavia non con le mutande di quella cantante o con l’attore di quella fiction, insomma con materiali ugualmente pop, ma con argomenti cui la storia dell’uomo ha dedicato le energie migliori.

Dio, Cristo, Allah, Buddha. Le sofferenze e i dolori, la malvagità della creatura umana. Le sue soddisfazioni profonde nell’interesse collettivo e non egoistico. L’elenco potrebbe essere lungo. Pensate a qualcosa cui avete dedicato qualche spazio di pensiero e di emozione; qualcosa per cercare il cui nome avete percorso metri e metri di letteratura e di filosofia; qualcosa che ha inchiodato parte (o tutta) delle vostre giornate. Qualcosa di valore, insomma.

E una volta pensatolo, guardate il primo venuto che ci gioca nel fango. Che lo sbatacchia, lo stropiccia, lo sprimaccia e poi passa ad altro, insoddisfatto, l’occhio vacuo che nemmeno un bue. Un po’ un bambino prima, come si dice, di “affrontare il suo Edipo”, prima di prendere atto che i desideri/impulsi possono essere rinviati, o – assurdo! – disattesi. Non voglio evocare il monaco cieco del Nome della Rosa, secondo cui ridere del poco porterà inevitabilmente a ridere del Tutto. Ma rimane la domanda: si può davvere ridere di tutto?

Ecco io penso che la risposta sia no. No, perché è brutto ridere di fronte alla morte, alla sofferenza, alla ricerca, alla soddifazione altrui, banalizzandola . Non moralmente errato. Proprio brutto, come un abbinamento sbagliato in una sera di gala o un palazzone abusivo, una stecca alla Scala o un lago inquinato. Banale è da bannum che sta per legge divenuta consuetudine. E’ la normalità di cui non ci si accorge, paesaggio ordinario, un canale dopo l’altro nell’atto autoconsolatorio del dito sulla tastiera del telecomando. Come se non ci fossero più vette, in questo che sembra talvolta un deserto della mente e del cuore.

In memoria di Guido Petter (Luino, 1927 – Dolo, 24 Maggio 2011)

Io proseguo col mio insegnamento nel corso di laurea in psicologia, che si avvia a diventare una Facoltà. I miei rapporti con gli studenti sono sempre stati in tutti questi anni (e del resto lo erano anche prima) molto soddisfacenti, e talvolta addirittura splendidi (anche se vi sono stati periodi in cui mi sono augurato che all’impegno individuale nello studio si accompagnasse in loro una maggiore sensibilità per i problemi generali dell’universira e della società civile e un coinvolgimento più intenso, come era successo nel ’68 e come è accaduto poi anche altre volte, con un andamento ciclico, fino al movimento recente, vivace ma effimero, della «pantera»).

Continuo ad andare in bicicletta all’università, e non porto più in tasca una pistola. Non ve n’è più la necessità, e così mi servo solo degli strumenti che sono propri del mio lavoro, i libri, la carta, la penna, talvolta il registratore o la lavagna luminosa. Del resto, anche se tornassero tempi come quelli che ci siamo lasciati alle spalle, dubito che la porterei ancora, quella pistola.

Non credo però che torneranno, dato che la vaccinazione è stata generale e profonda. Ma dobbiamo tutti vigilare, e operare, perché le condizioni che hanno portato a quelle esperienze drammatiche non abbiano a ricrearsi nel nostro paese.

Oggi le emergenze che abbiamo davanti sono altre: la lotta contro la mafia, la lotta contro la non meno devastante «cultura delle tangenti». È su questo che dobbiamo mobilitarci, come al tempo della violenza eversiva, insieme ai giovani. Proprio i giovani, infatti, debbono poter credere in uno Stato giusto e democratico, e in una piena moralità della vita pubblica (e anche nella effettiva possibilità di difenderla)”.

(Guido Petter, I giorni dell’ombra. Diario di una stagione di violenza italiana; Garzanti, 1993; p. 183).

A Guido Petter, Partigiano,
difensore della liberazione e della giustizia,
osservatore e conoscitore dei bambini,
vero insegnante della Libertas Patavina.

Grazie.

Barbagianni radicali

Sono capitato in questo sito non per il nome che porta, che rende questo blog parente stretto, ma per un caro amico che me lo ha segnalato.

Ecco – mi son detto leggendo il post di Arianna, cui rimando – che cosa dobbiamo fare? Siamo circondati da persone tristi e arrabbiate, non tutte certo, ma provate ad aguzzare la vista e a tendere le orecchie: ficcate il naso nei discorsi altrui, fate quello che mamma non vorrebbe, impicciatevi… In tram o al supermercato, in fila alla posta o alla cassa dell’autogrill. Persone abbruttite dai giorni, appesantite da relazioni zoppicanti, ingrigite da micromessaggi violenti scambiati con chi dovrebbe star loro a cuore. Arrabbiate. Contate i sorrisi che incrociate. Una signora l’altro giorno guarda la bimba in carrozzina ed esclama: ciao bella! Fà un sorriso a questa bisnonna. E poi, tra sè (noi eravamo invisibili, a quanto pare): sono belli, peccato che poi crescano.

Una società di bambini carini. No bambini, no party. Questo si vorrebbe. Una società semplice: tutti buoni, bianchi, puliti, cattolici (da salotto, o da ministero, come direbbe Camus). Il trionfo del deodorante. Affogare le tristezze nello Chanel n. 5.

Ma la verità – si, la verità – è che la società è complessa. Che gli altri, chiunque essi siano, non sono facili, né puliti, né bianchi. Sono quello che sono e come sono è il loro miglior modo di essere in quel momento. Anche la vecchia immalinconita: nella sua battuta c’è il suo modo di stare. Di sopravvivere. Peccato non abbia il tempo di accorgersi che può affrontare questa sua malinconia.

Per questo la Comunità del Barbagianni è segno di profezia. Non parlo di guardare nel futuro e dirci che cosa ci aspetta. Quella è divinazione. Parlo di pro-fezia, di parlare-per. Per chi non vede alternative. Per chi è scoraggiato. Per chi non sa come ricominciare. Per chi cerca ancora segni di fede concreta. I profeti sono gli ultimi politici: costruiscono nuove poleis, tracciano sentieri, come quelli di Isaia, nel deserto.

de-schola#2 – interno giorno

«Scriva un libro, prof!». La voce è quella squillante del mio Sergente Nella Neve. Se mai potessimo calarci nei panni di Er, ne La Repubblica platonica, e scorgere il momento di scelta del proprio destino, so che vedremmo E. prender su la vita di un soldatino italiano, nella Prima o nella Seconda. Uno di quelli che ha dato tutto e poi è tornato sconvolto ma vivo e poi si è messo in testa di cambiare il paese, come Revelli ne Le due guerre. Insomma, E. parla con la voce del coraggio e se mi lancia questa provocazione non vuole solo mettere in pausa le mie elucubrazioni sulla scuola, ma anche invitarmi a far di più e meglio. A dimostrare che un senso una scuola ce l’ha ancora.

La mia tirata, tra una citazione hegeliana e l’altra – perché bisogna pur sempre obbedire al kantiano andareavanticolprogramma – nasceva da qualcosa che aveva corso carsico per tutta la mattinata. Una reazione della classe all’idea di interrogare, una risposta timida a proposito di persone che si offrivano e morta là. Anzi no. Qualcosa ruminava nei gangli della pancia. Ero uscito dall’aula sovrappensiero, con una lucetta illuminata sul cruscotto: il check automatico aveva segnalato un guasto. Già, ma dove cercarlo? Nella difficoltà di interrogare? Nella fatica del valutare? Nel voler concludere un argomento senza interruzioni? Nel secondo quadrimenstre che precipita? Nella temperatura della classe? Nella cravatta stretta? Nella borsa inutilmente pesante? Mah.

La grande luce, ad un tratto: la mia personalissima reazione è scattata di fronte a quella gentile timidezza. Giovani uomini e donne che hanno una soluzione sensata ed equlibrata e non la schiaffano in faccia al loro prof. Ancora una volta avevo paura della paura. Paura mia di fronte alla paura loro. Perché la timidezza non è che una sfumatura inizio/metà novecentesca della paura. Non sarà mica un timido, lei? Dice il superiore all’ufficiale deputato a vigilare in attesa dei tartari nel deserto buzzatiano. Si, avrei risposto. Ma tanto il militare non l’ho fatto e quindi che cosa parlo a fare. Timido io, nella mia insicurezza di insegnante, timidi loro nel doversi destreggiare in una selva di valutazioni-trappole.

Provare paura o rabbia. Emozioni umane troppo umane ma che per un accordo tacito un adulto maturo occidentale dovrebbe avere superato da tempo. Figuriamoci un insegnante, colui che deve istruire con fermezza d’animo, per definizione. Paura o rabbia non sono tollerate dal sistema, che chiede efficienza. E con sistema non intendo né colleghi o superiori, che a parlarci con pazienza a tu per tu si scopre – guarda un po’ – che s’intimoriscono e impauriscono pure loro; e nemmeno i ragazzi, la cui soglia di tolleranza è sempre più alta di quanto gli adulti non immaginano. Ma proprio una struttura impersonale, fondata su consuetudine e meccanismi inconsci, che si nutre del “si fa” e “si dice”, che s’abbevera dell'”opportuno”, del “utile”, del “necessario”, del potente “avresti dovuto”.

La cara Paola Mastrocola ama i ragazzi, lo si percepisce. Chiede che il sistema venga cambiato, cosa che qualunque insegnante appassionato sa e vuole. Proprio in nome di quell’amore, chiede che venga data la possibilità di studiare a chi desidera accoglierla. Nel breve colloquio con Fazio non ha potuto descrivere quello che vede, e ha solo elencato alcune conclusioni. Penso che possa trovarsi d’accordo su questo: questa scuola non istruisce alle discipline o al metodo, perché in sostanza e generalmente non propone contenuti e metodo. Propone continuamente strategie per condurre allo studio, un continuo ostinato lavoro metacognitivo o meglio ancora metamotivazionale. Si propone come schizofrenica: ti propongo cose che per accettarle e indagarle ci vuol la passione, ma non posso permettermi di impiegare la sola passione. E così i ragazzi non si allenano a confrontarsi con variabili essenziali (per il dopo) come l’interesse, la creatività o la responsabilità; ma continuamente sono portati a confrontarsi con la strategia migliore per non essere sommersi. A strategia rispondo con strategia.

Una versione leggermente modificata di questo pezzo comparirà sul prossimo numero di Madrugada, rivista dell’associazione Macondo.

 

sir Ken Robinson # 2 – sull’emancipazione

Ci sono idee che diamo per scontate, che hanno partecipato alla nostra crescita e adesso sono parte di noi, ma alle quali siamo parimenti assoggettati. Le consideriamo ordine naturale delle cose. Molte di queste idee sono state concepite in tempi e situazioni diverse dal presente e sono ormai relitti, reliquie o fossili. Magnifici magari, ma esseri morti. Una di queste, nell’istruzione, è l’idea di linearità, per cui se segui esattamente il percorso scolastico prefissato, arriverai a sistemarti per il resto della vita. Ma questo non succede, o non succede più. E soprattutto questo non tiene conto delle effettive potenzialità di ciascuno, che potrebbero essere del tutto divergenti, o non contemplate, nel curriculum “normale”… «Ci siamo svenduti ad un modello-fastfood di istruzione».

L’intervento di Ken Robinson è qui. E’ in un inglese affascinante, ma è possibile selezionare i sottotitoli in italiano.