Un tempo per sperare – futuro interiore, di Michela Murgia

La terra straniera dalla quale parte Michela Murgia, in questo denso Futuro interiore (Einaudi, 2016), non è la pur maltrattata Sardegna, le cui brulle terre e meravigliose acque fanno da sfondo costante, non detto. È la sua età anagrafica, che le permette un carotaggio sui quaranta-cinquantenni. Ma quasi a scardinare il teorema della sua coetanea Jean Twenge (Generation Me), secondo cui già i nati negli anni settanta sono invischiati nel culto dell’Io, divinità pagana eretta nel tempio del Mercato dopo lo sfacelo delle Contestazioni incompiute, la Murgia non guarda all’ombelico rifatto dei suoi coetanei, ma fuori dalla finestra. “Non sapendo quando verrà l’alba, io spalanco ogni porta”, scriveva la Dickinson: forse davvero ci vuole uno sguardo femminile, un pensiero femminile, una intuizione della parte femminile di ciascuno di noi, per rivedere la cura per ciò che è Comune. 


Un libercolo veloce, come generalmente le Vele einaudiane, propone argomentazioni serie e non scontate. La prima: pensare una cittadinanza libera dal giogo (e dal gioco al massacro) delle identità, nella quale si sveli la menzogna della cosiddetta integrazione che maschera una assimilazione vuota e cieca – la tolleranza già denunciata da Pasolini. In una Europa in cui le merci hanno libero passaggio ovunque e le persone invece debbano essere filtrate per non rovinare equilibri demografici e politici – è una sorta di imperialismo al contrario -, ius sanguinis e ius soli sono categorie obsolete. Esistono tuttavia “stati in gestazione” che stanno elaborando percorsi di autodeterminazione: sono esperienze con una storia reale (Catalogna, Transnistria, Scozia, Sardegna…), in cui cioè l’appartenenza non viene inventata, come nel caso della razza Piave. La strada suggerita è quella percorsa dal Canada, in cui centrale appare il coinvolgimento in una comunità affinché essa possa essere scelta. Tra il suolo e il sangue si situa dunque un progressivo movimento di deliberazione, che non può che partire dalle aule scolastiche.

Il secondo ragionamento riguarda gli spazi urbani, la loro bellezza e capacità inclusiva/democratica. Trovo interessante la necessità di rammentare come la bellezza di cui si dice abitata l’Italia sia per lo più nata in regimi abitati da profonda ingiustizia sociale, siano essi monarchici, curiali o dittatoriali. Al contrario, poi, la Repubblica non ha prodotto luoghi belli, adatti alla convivenza, ma quartieri dormitorio destinati ad essere sempre e comunque periferia. Possibile una via di mezzo? Possibile un ritorno alla piazza che non sia solo “del mercato”, ma che costituisca un luogo disordinato, abitato da diversità etniche e generazionali che convivono? La Murgia porta due esempi concreti, vivi. E mi viene in mente tutto il lavoro sotterraneo di Marianella Sclavi.

Il terzo passaggio riguarda il potere. È immaginabile senza una gerarchia? E una gerarchia senza violenza, tacita o agita che sia? Michela Murgia suggerisce come la storia delle donne contenga esempi di gestione non violenta del potere, perché storia di emarginazione e di alleanza tra emarginati. Mi viene in mente David Maria Turoldo, a colloquio con don Lorenzo Milani: concepisco la gerarchia come paternità. E, insieme, la lezione di Socrate: uomo buono è colui che obbedisce a sé stesso e a chi ritiene degno di comando. I padri e un filosofo – pur attento al femminile: questa via nuova al potere non è questione di sole donne. E gli esempi portati nel testicciolo lo confermano. Si tratta piuttosto di rinunciare ad una visione genitale del potere, una potenza inseminatrice che si gioca sul presunto carisma e sulla Soluzione continua, calata dall’alto. Qualunque processo partecipativo, compresa la Rete, deve riscoprire la pazienza, questa sì femminile, del lento coinvolgimento.

Il progresso ha sempre ragione

La Zuppa del demonio, da un’espressione di Dino Buzzati, è un film/documentario di Davide Ferrario presentato fuori concorso a “Venezia71”. L’amico che me lo ha consigliato, mi ha anche suggerito l’utilità della visione per le classi quinte. E in effetti sono uscito con la sensazione di aver avuto, per settantacinque minuti circa, l’Italia negli occhi. Un’Italia che può essere – penso – solo raccontata, e non più vissuta: non solo perché passata (la narrazione, realizzata con centinaia di contributi video e montata stupendamente, va dal 1911 circa alla crisi petrolifera del 1973), ma perché forse quel tipo di lavoro, e la narrazione di quel lavoro (anch’essa lavoro, sebben su di un altro piano) non ci sono più.

zuppaDLe immagini hanno un duplice commento: la musica, splendida, di Fabio Boravero e molti brani (Marinetti, Meneghello, Rea, Bocca, Parise, Sciascia, Buzzati e  altri). Quindi c’è il lavoro – il progresso DEL e NEL lavoro – che trasforma la terra, le mani, gli animi, le città e la riflessione intellettuale SUL lavoro/progresso. Come la colonna sonora, generata dalle immagini e mai violenta su di esse, anche le parole suonano rispettose: gente che lavorava pensando e scrivendo, ma senza ammiccare – come chi non si sporca le mani col grasso ma che insomma siamo tutti compagni. Mi viene in mente (appunto) Meneghello, che commenta il lavorare stanca di Pavese:

«”Lavorare stanca” mi è sempre parso il detto di uno che non se ne intendeva molto. Del lavoro duro, che richiede vera fatica, sembra assurdo, vagamente blasfemo, dire che “stanca”. In officina da noi, una delle componenti essenziali del lavoro era la forza che ci voleva, alzare i monoblocchi, sollevare enormi pesi con le argane, installare nelle loro sedi i magici alberi a gomito dei cami, o i potenti differenziali.
L’orrore per le morti di mio padre o dei miei zii, o anche di Toni dalle Case o di Bepeto Vecia (mai avvenute per fortuna), urtati dalle oscillazioni di quelle mostruose masse appese a una catena, o maciullati sotto orrendi blocchi di metallo sfuggiti ai ganci, sconvolgeva in brevi lampi le mie notti e qualche volta di straforo le ore del giorno. Era così il lavoro, duro e pericoloso, ma non stancava».
Luigi Meneghello, Le carte (1999) p. 396 (pensiero datato 1968)

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Non ho idea di un lavoro che stanchi, davvero, fisicamente – e che forse mi farebbe bene, almeno all’inizio. Ma il documentario mi ha suggerito la fede nella possibilità di costruire qualcosa, ognuno come può e come vuole/riesce – mani o penna che sia. C’è stata un’epoca in cui era possibile credere nel lavoro collettivo, volto a costruire una casa comune, come nell’utopia realizzata (secondo la dizione di Desroche e Draperi) di Olivetti.
Questa “ragionevole speranza” non è più immaginabile? Ci rimane solo di giacere nel maldipancia della flessibilità? Il verme del neoliberismo è insinuato così a fondo che ci costringe solo a cercare il minimo per salvare il mutuo e la casa? Forse – anche qui – bisogna parlarne, bisogna guardare insieme – lavoratori e studenti, manovali e studiosi – queste immagini e ritrovare un alfabeto comune.

 

 

Mendicanti preti politici

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«La vera carità cristiana si fa aiutando realmente, fattivamente, quotidianamente le persone in difficoltà, come fanno i nostri servizi sociali, e non permettendo loro di vivere di questue, talvolta forzose, di espedienti ai margini della società e della legalità».

A prima vista possono passare per parole di buon senso. Le ha vergate Massimo Bitonci rivolgendosi ai frati di sant’Antonio in una puntata della quotidiana polemica sulle politiche sull’accattonaggio (che preferiamo trattare come diversi punti di vista sulla questione della povertà) . A prima vista dicevamo, perché l’affermazione solleva alcune questioni non banali. LEGGI IL SEGUITO

Gianni Belloni, su questioni apparentemente locali e ipocritamente “di ordine pubblico”.

Il lavoro che slega

Ennio Ripamonti: Il lavoro che slega.
La comunità alle prese con le nuove forme di impiego

ripamonti2014L’incontro di sabato 12 aprile con Ennio Ripamonti (presso il Centro Universitario, dalle 9,30) è proposto dalla Scuola del Legame Sociale insieme a “Un attimo di Pace“, una proposta voluta dal vescovo di Padova per raggiungere gli adulti della città, della diocesi e quanti verranno a contatto con l’iniziativa tramite il web per proporre alcuni momenti di riflessione e spiritualità non convenzionale.

“È arrivato il tempo di cambiare marcia, con una rinnovata assunzione di responsabilità che veda prevalere l’impegno e la disponibilità di tutti verso il lavoro.
Con il lavoro, c’è da salvaguardare il bene incommensurabile della coesione sociale e, soprattutto, di quella spirituale e culturale dei nostri popoli che – resi ricchi dal dono della fede e con una laboriosità esemplare e intelligente – hanno saputo compiere nel tempo memorabili opere di promozione umana.”
Con queste parole (estratte dall’appello completo) i Vescovi del Triveneto hanno ricordato la ricorrenza del 1° maggio 2013 e da queste parole ci piace partire per introdurre l’appuntamento con Ennio Ripamonti.

Ci chiediamo quanto l’attuale condizione lavorativa rifletta la società o, al contrario, la deformi.
E’ la mancanza di legame sociale a generare forme di lavoro “impersonali” oppure è il mercato del lavoro, caratterizzato da precarietà e mancanza di politiche di conciliazione, a portare ad un logoramento della coesione? Lo scontro intergenerazionale è padre o figlio di un sistema lavorativo senza “maestri” e senza “discepoli”?
Cercando di indagare questi elementi, e ripartendo dal legame sociale, potremo tessere le fila per rinnovare il lavoro e ri-considerare come elementi cardine per il benessere individuale e comunitario, lavorativo ma non solo, la fiducia, la solidarietà e la valorizzazione delle competenze.

“Il tema mi riporta alla mente il breve saggio La società della stanchezza, nel quale Byung-Chul Han sottolinea proprio come la pressante richiesta di prestazione si traduca in una richiesta lavorativa che aliena non solo il singolo, che è visto (e si vede) come super-individuo, ma anche i gruppi, le comunità. E’ possibile che ad essa si possa rispondere solo rivedendo i tempi di lavoro e soprattutto di relazione? Questo significa probabilmente anche rivedere il lavoro come valore, o meglio la sua posizione nella gerarchia valoriale. E’ il lavoro-per o il lavoro-con che mi umanizza?
Dall’altro lato adottiamo come riferimento Richard Sennett, non solo de L’uomo artigiano, ma forse soprattutto di Insieme: le pratiche dialettiche (comunicazioni di nozioni/dati volte ad essere utilizzate in velocità, in ordine all’efficacia) sembrano avere la meglio su quelle dialogiche (che però costituiscono il cuore di esperienze lavorative più “umane”). Il modo con cui stiamo al lavoro ha a che fare con il modo con cui pensiamo e viviamo l’essere gruppo/comunità?”

Ennio Ripamonti è psicosociologo e formatore, docente a contratto di ricerca intervento di comunità presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Si occupa di programmi di sviluppo di comunità nel campo delle politiche di welfare, prevenzione, cittadinanza attiva, rigenerazione urbana e politiche giovanili.

Alameda

Ha più di 5 milioni di abitanti, non so quanti milioni di automobili, e quanti miliardi di claxon e sirene e tubi di scappamento. Ci sono cani randagi dappertutto e anche persone randagie, che vivono per strada, dormono per strada, a volte bevono fino a stramazzare al suolo, altre volte evidentemente non hanno sete e restano lì, a chiedere l’elemosina, a guardare la gente che passa, o a dormire, in maniera più o meno strutturata, a lato della strada. La città è tagliata in due dalla “alameda”, che in realtà si chiama Avenida Libertador General Bernardo O’Higgins, e non so se è più lungo il nome o la strada stessa. Che è anche larga, otto o nove corsie, perchè una corsia mi sa che è per gli autobus, ma solo in un senso di marcia, chissà perchè. Un pezzo della alameda lo percorro tutti i giorni a piedi per andare al lavoro, e ogni giorno è un film, perchè non c’è solo il traffico delle auto, il più banale, ma c’è anche quello pedonale, con fiumi di gente che cammina nei due sensi, ma così tanta che a volte mi trovo bloccata e non riesco neanche a superare chi va più piano perchè sta scrivendo al cellulare, perchè è su una sedia a rotelle, o perché semplicemente non ha fretta (non che io ne abbia, peraltro). E poi è tutto un festival di economia informale, ossia di gente che per strada vende qualsiasi cosa, dall’accendino, all’abbigliamento, all’attrezzo per scavare le zucchine a quello per sturare il lavandino. E ogni giorno è diverso, così che non c’è da annoiarsi, ma anzi si scopre sempre qualcosa, e ogni tanto ti compri una spremuta d’arancia per il viaggio, o qualche cosa che puoi evitare di comprare al supermercato e lo compri direttamente sulla Alameda. Mitica Alameda, che devi imparare dove la puoi attraversare, perché non è che puoi attraversarla dove ti pare e a volte, se ancora non sai bene, ti tocca fare dei giri assurdi prima di trovare l’agognato passaggio pedonale. I cani randagi sono intelligenti, e hanno capito come si fa, ed è incredibile vederli che aspettano il semaforo verde prima di farsi traascinare dall’onda umana che li porta al di là della strada.

Continua a leggere il report, di Michela Giovannini, da Santiago del Cile QUI.

Lavorare stanca? Le iscrizioni sono ancora aperte.

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Quest’anno riparte la SCUOLA DEL LEGAME SOCIALE. E’ il terzo biennio: dopo il primo, che è stato dedicato all’esplorazione delle tematiche trasversali legate al legame, e il secondo, centrato sull’economia, questa volta parleremo del LAVORO e delle sue letture in ordine al legame sociale stesso.
Il corso è partito, ma le iscrizioni sono ancora aperte, per poter rinforzare il gruppo.

Questo il link per scaricare il calendario.

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Il titolo è suggestivo e provocatorio: LAVORARE STANCA? Qualche volta stanca cercare il lavoro o solo… pensare al senso del lavoro che ci circonda, oggi. Ma questo senso è cambiato nel tempo? I nostri nonni lo pensavano diversamente? E le nostre nonne?

aperte(…)Non è certo attendendo nella piazza deserta

che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade

si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,

anche andando per strada, la casa sarebbe

dove c’è quella donna e varrebbe la pena.

Nella notte la piazza ritorna deserta

e quest’uomo, che passa, non vede le case

tra le inutili luci, non leva più gli occhi:

sente solo il selciato, che han fatto altri uomini

dalle mani indurite, come sono le sue.

Non è giusto restare sulla piazza deserta.

Ci sarà certamente quella donna per strada

che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

Cesare Pavese, Lavorare stanca (1943)

“Lavorare stanca” mi è sempre parso il detto di uno che non se ne intendeva molto. Del lavoro duro, che richiede vera fatica, sembra assurdo, vagamente blasfemo, dire che “stanca”. In officina da noi, una delle componenti essenziali del lavoro era la forza che ci voleva, alzare i monoblocchi, sollevare enormi pesi con le argane, installare nelle loro sedi i magici alberi a gomito dei cami, o i potenti differenziali.
L’orrore per le morti di mio padre o dei miei zii, o anche di Toni dalle Case o di Bepeto Vecia (mai avvenute per fortuna), urtati dalle oscillazioni di quelle mostruose masse appese a una catena, o maciullati sotto orrendi blocchi di metallo sfuggiti ai ganci, sconvolgeva in brevi lampi le mie notti e qualche volta di straforo le ore del giorno. Era così il lavoro, duro e pericoloso, ma non stancava.
Luigi Meneghello, Le carte (1999) p. 396 (pensiero datato 1968)