Il Mercato ci fa da tata?

Nel frame tratto da Mrs. Doubtfire, l’ottima governante interpretata da uno straordinario Robin Williams fa notare al basito Pierce Brosnan che la scelta di macchine potenti come quella parcheggiata fuori casa potrebbe denotare il tentativo di sopperire ad altre doti, per così dire, naturali.

Da un punto di vista genericamente psicanalitico (e me ne scusino gli addetti ai lavori) potrebbe essere divertente leggere questa scena come un conflitto tra persone invidiose: Robin/Doubtfire è invidioso del nuovo affetto dell’ex-moglie e stacca il simbolo della potente autovettura dal cofano della medesima (in fondo Williams è qui una donna, ma anche un uomo: dall’invidia del pene all’angoscia di castrazione e ritorno); nello stesso tempo possiamo leggere nella scelta proprio di quell’auto – come insinua il protagonista – un simbolo d’altro, un’estensione di sé, o di una parte di sé, direbbe Freud, o magari qualche interpretazione sbrigativa del suo discorso sulle nevrosi.

Senza scomodare il “padre tremendissimo” della psicoanalisi, e tuttavia tenendone presente le intuizioni sulla società  di inizio XX secolo, risulta più immediato parlare, nella società  del consumo di massa che allora prese le mosse e oggi pare trionfare, di induzione dei bisogni e di manipolazione dei desideri. Perché ho bisogno di un’autovettura? La domanda è piuttosto semplice e concerne ormai addirittura la sfera dei bisogni primari. Ma perché ho bisogno proprio di quella vettura? Qui la questione si fa pù complicata.

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Pasolini diceva, nel 1975, in una prolusione al congresso dei Radicali (un discorso letto da altri, perché lo scrittore era stato ucciso due giorni prima):

ipasoli001p1I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo di uomo: ma l’umanità  stessa.
Pasolini parla avendo di fronte i risultati del cosiddetto “boom” degli anni Sessanta in Italia. E cioè le conseguenze ultime di quella trasformazione della produzione industriale che l’Occidente visse a partire dalla cosiddetta Belle Epoque. Il “vecchio capitalismo” di cui parla si limitava ad una produzione di merci; la sua evoluzione va invece a produrre nuove modalità  di relazione tra le persone, dando l’illusione di avere a disposizione non solo le cose, ma persino le persone e con esse i diritti di cui sono portatrici.

Che diritto ho a possedere? Dove arrivano i limiti a questo diritto?

Scrivono De Berardi e Guarracino, analizzando l’origine storica della moderna produzione industriale:
Il fordismo non fu un fenomeno limitato alla sola produzione: esso rappresentò anche una concezione più ampia dei lavoro industriale, una filosofia complessiva della società  e dei rapporti sociali, un credo etico. Era ferma convinzione di Ford che esistesse un nesso stretto fra prosperità  industriale (aumento della produzione) e allargamento del mercato attraverso l’innalzamento del livello di vita: l’operaio diventava consumatore attraverso gli alti salari e assorbiva quella cultura dell’abbondanza che si andava diffondendo nell’epoca della produzione di massa.

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Lo scientific management in accoppiata con nuove forme di accesso al credito (prestiti bancari, leasing) permette a chiunque di accedere ai beni prima riservati ad una élite. Di qui il successo del T model, una utilitaria pensata per la massa, desiderosa di emanciparsi dalle drammatiche condizioni della vita contadina che caratterizzava l’esistenza ancora della maggior parte dei lavoratori della fine del secolo XIX.

Questo fenomeno rende estremamente coerente – e ancora attuale – l’analisi che diede Eduard Bernstein delle effettive possibilità  di realizzazione del cosidetto “programma massimo” del marxismo. Secondo il filosofo e politico tedesco, il cui pensiero riformista o gradualista venne bernstein_eduardtacciato di revisionismo, le condizioni storiche della rivoluzione come Marx le aveva teorizzate a metà  ‘800 non sarebbero state più conseguibili alla fine del secolo, di fronte ai rapidissimi mutamenti del capitalismo. L’espressione più celebre di Bernstein – “Ciò che comunemente viene chiamato il fine ultimo del socialismo è per me niente, il movimento tutto”- “Das, was man gemeinhin Endziel des Sozialismus nennt, ist mir nichts, die Bewegung alles”, tratta dal suo Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899; QUI in inglese) – sta a indicare come il capitalismo non sarebbe crollato sotto il peso delle sue contraddizioni (attraverso l’azione rivoluzionaria del proletariato, il “fine”), perché capace di «insospettate capacità  di autoregolazione» (De Bernardi-Guarracino), tali per cui la drastica contrapposizione di classe operi/imprenditori risultava sfumata dalla crescita del ceto medio e dal relativo benessere degli operai stessi. Al posto dello scontro frontale, dunque, sarebbe stata più incisiva una lenta azione di riforma in senso democratico (cfr. anche QUI). Attribuita a Bernstein, o forse ad Engels stesso, ma non verificabile (per ora), è l’affermazione secondo cui gli operai non avrebbero da perdere più solo le catene (Marx ed Engels,  alla fine del cap. 4 del Manifesto del Partito Comunista (1848) scrivevano: “I proletari non hanno niente da perdere fuorché le loro catene”, alludendo a un celebre passo del Contratto sociale di Rousseau: “L’uomo nasce libero, ma è ovunque in catene”)*.
Ecco che dalla condizione oggettiva di sottomissione ai privilegi dell’ancien regime (Rousseau) e dmary_poppinsa quella – egualmente oggettiva – dei lavoratori della rivoluzione industriale (Marx), si passa ad una sorta di sottomissione “soggettiva”: che si sia operai o meno, il mercato mondializzato (oggi: globalizzato) prevede e predetermina i nostri bisogni, come una immensa “tata”, una Mary Poppins dal volto indulgente, ma in ultima analisi senza scrupoli.
*: per la ricerca di chiarificazione sulla frase di EB, un sentito ringraziamento alla redazione di L’avvenire dei lavoratori.
[Edit 230611]

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