Se non so

Szymborska(closeup)

SOTTO UNA PICCOLA STELLA
Wislawa Szymborska

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del  mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
E poi fatico per farle sembrare leggere.
(da Vista con granello di sabbia, Adelphi 1998)

Dedicata al caro Ivo e al suo interpellare (custodente) le mie fragilità.

Quattro libri, dopo l’estate

Accanto al cambio dell’immagine della testata (per la quale ringrazio Antoine), suggerisco quattro libri che mi hanno fatto compagnia nelle ultime settimane.

perIsherwood

Chi sia rimasto affascinato da Un uomo solo, pubblicato sempre per i tipi di Adelphi nel 2009, potrebbe rimanere deluso da questo testo autobiografico di Isherwood. Allora, l’attenta costruzione dei personaggi e la precisa intenzione di non scivolare nel morboso dello scandalo, avevano contribuito a realizzare un capolavoro sul labirinto degli affetti. Qui, la narrazione si fa quasi cronaca quotidiana, relazione di dialoghi sulle questioni minime della vita in una città sull’orlo del baratro. Ma a ben vedere, non è delusione di qualche aspettativa, anzi. Al contrario: delusione perché troppo poche sono queste pagine per potersi dire sazi della compagnia di Isherwood. Perché, come succede per i libri davvero classici, alla fine si vorrebbe avere qualche capitolo in più, per poter godere delle parole e dei silenzi di questa persona. Ma come, già te ne vai? Questo il quesito finale, nonostante le duecentocinquanta pagine. Berlino, anni Trenta, si staglia sullo sfondo, fredda e disorientata: non si leggono, ma si annusano le violente certezze del movimento politico che di lì a poco, con i suoi complici, avrebbe inchiodato l’Europa. Ma le persone, come sempre, credono di esser altro dalla politica, apparente fondale di teatro, eppur invece vi sono costrette dalle necessità abitative e lavorative. La vita va avanti, e solo l’occhio delicato di Isherwood riesce a cogliere i drammi individuali, in attesa dello sfacelo.
(Christopher Isherwood, Addio a Berlino, Adelphi 2013)

perPennac87 anni e 19 giorni. 31774 giorni, circa. Messi uno vicino all’altro segnano la misura di un’esistenza qualsiasi, una delle tante in un’era in cui la quarta età trionfa. Un diario, dunque, ma né quotidiano, né intimo, se con questi termini si intende la cronaca degli avvenimenti e delle risonanze emotivi via via che la distensio animi si dipana. Infatti lo stratagemma di Pennac è geniale: scrivere un diario sì quotidiano, perché fatto di giorni, talvolta di ore, ma non intimo nel senso di intimista, ma proprio nel significato che diamo all’aggettivo quando lo usiamo accanto alle parole detergente o igiene. Intimo perché letteralmente “strettissimo”; di più: inseparabile. Più di un amico, che pur è altro da noi, più di qualsiasi legame affettivo. E’ la relazione del protagonista con il proprio corpo, le proprie membra, i propri organi interni ed esterni. Il corpo è nostro (e quindi parrebbe da noi separabile, come l’oggetto dal suo soggetto) ma nello stesso tempo il corpo è noi, il mio corpo sono io. A partire dai 12 anni, il protagonista inizia a segnarsi che cosa il suo corpo comunica. Si inizia con la paura, per l’esigenza di confidare almeno alle pagine scritte le inquietudini di un adolescente. E poi con gli anni diventa cronaca (impietosa, direbbe qualche triste spiritualista) di odori, liquidi, turgori, deiezioni, sommovimenti interni, malattie e trionfi della carne. Pennac ci ricorda che aver cura di noi non è questione di salutismi o altre retoriche, ma proprio di ascolto, di autocoscienza, di dialogo con l’anima, che non è altro che corpo vivente.
(Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli 2012)

perCognetti2Ha sempre ragione Goffredo Fofi, anche se non vorrà mai ammetterlo esplicitamente. E ha ragione quando dice, su Internazionale, che «Cognetti è uno scrittore vero». Da cosa lo capisco? Il mio criterio è questo: lo scrittore è vero quando, nel momento in cui lo leggo, mi viene voglia di scrivere. Non di ri-scrivere quanto egli propone; l’intenzione non è correttiva. Ma proprio un desiderio spontaneo di provarmi a raccontare la mia parte in questa storia d’Italia. Perché Cognetti, attraverso le vicende di Sofia, riesce a comunicare che cosa sia stato il nostro paese negli ultimi quarant’anni. Non si tratta di storia civile – anche se le pagine sull’Alfa Romeo spiegano meglio di un manuale scolastico la vicenda di quel marchio – ma di storie personali di individui “atomici”, perché quel che emerge, al di là di tutto, è il rincorrersi tra isolamento e solitudine, tra l’esser lasciati soli e il volersi appartare, perché si ha imparato a farlo, perché si è stati costretti ad impararlo. Il boom edilizio, la contestazione e le sue degenerazioni violente, il lavoro come religione, l’universo border-line delle nevrosi e delle dipendenze, il naufragio lento dei matrimoni, la speranza che della propria creatività si possa fare una professione. E, mentre le persone attraversano tutto questo, si rincorrono, si parlano e poi tacciono e poi ricominciano a parlare, sfiorando la salvezza che sta nelle mani del convitato di pietra, l’ascolto.
(Paolo Cognetti, Sofia si veste sempre di nero, Minimum Fax 2012)

perGombroSenza i contributi accessori – l’introduzione di Cataluccio; un breve saggio e la prefazione all’edizione argentina scritti dall’autore stesso – questo onirico romanzo di Gombrowicz risulterebbe molto più arduo da decifrare. Per assumerlo da solo, puro, è necessario abbandonare l’esigenza di comprendere tutto e subito. La Polonia degli anni subito precedenti il Secondo Conflitto mondiale è già di per sé un continente misterioso, che pare descrivibile solo dal bianco-e-nero delle immagini storiche, quasi schiacciata sulla violenza del prossimo invasore. Gombrowicz le restituisce il colore, la tre dimensioni (e forse la quarta e la quinta), i sapori e gli odori delle aule scolastiche, delle villette borghesi, delle case di campagna abitate più da una servitù viva che da padroni che mimano se stessi. La domanda sembra questa: chi è veramente se stesso? Che forma abbiamo quando siamo noi stessi? Ma… Abbiamo davvero una forma, nell’esser noi stessi? L’espediente fantasmagorico è semplice: un trentenne si ritrova costretto a tornare tra i banchi di scuola, con gli adolescenti. Nessun si accorge della sua età più matura ed egli stesso è imprigionato nell’esigenza altrui di “dare forma”. Formazione, educazione, istruzione… Ma anche le ideologie in diffusione, il rinnovarsi dei quadri morali, le mode moderne; oppure le tradizioni, il “si è sempre fatto così fin da quando eri bambino”, le consuetudini, le differenze di classe e di casta. Tutto pretende di dire chi siamo, di disegnare il contorno della nostra identità: Gingio, il protagonista, se ne accorge e la reazione immediata è la paralisi, l’immobilità, l’afonia. Come in quei sogni in cui ci sembra che i nostri movimenti siano costretti, impediti e lentissimi, lo sforzo per liberarsi, per svegliarsi, deve essere enorme.
(Witold Grombrowicz, Ferdydurke, Feltrinelli 2009)

Civetta in SOL

L’immagine rinnovata della testata ospita la consueta rapace notturna in compagnia di un gomito. Esso appartiene a Gino Paoli, cantautore che non ascolto. Ma, in questa foto, mi sta simpatico. Quella cosa degli amici al bar, poi, forse è anche vera.
L’ho scovata in questo sito, una sorta di raccolta di memorabilia.
Sempre da essa, anche l’immagine del vagamente perplesso (ma mai come la civetta) Pablo Picasso, qui sotto.

CivettaPicasso

L’incantesimo della speranza. Cit.#3

Più spesso Socrate descrive [la sua dottrina] semplicemente come un motivo di speranza. (…) O vi è una possibilità che la vita abbia un senso, oppure sarebbe meglio non esser nati. O si può sperare di là da questo mondo in una giustizia per i giusti, oppure non resta che disperarsi per un’esistenza tanto irridente da far re i giullari e tanto tragica da far acclamare dalla torma il martirio degli innocenti. Se non trovassimo una qualche ragione per poter sperare in un’altra esistenza, saremmo annientati dalle troppe occasioni d’infelicità che questo mondo ci offre. Non ci si può salvare che con la speranza, e questa speranza non può essere salvata che con la fede. Per quanto poco sia credibile, il meglio che si possa fare è sempre credervi. Se il tenue filo della logica può condurci alla minima ragione di speranza, occorre stare attenti a non romperlo, e a non permettere che alcuna riserva rimetta in discussione la ragione. Ecco perché “giova fare a se stessi di tali incantesimi” (Fedone, 114d): non bisogna smettere di credere alla ragione, se si vogliono avere motivi di speranza.
(…)
Proprio perché la nostra vita deve testimoniare il nostro pensiero, dobbiamo vivere quello che pensiamo via via che andiamo a scoprirlo. (…) Puntiamo la nostra vita su una speranza, e questa, a sua volta, su qualche associazione logica. Per aver fede in questa aspettativa, dobbiamo quindi esserne convinti, e per credervi è indispensabile identificare la nostra anima col nostro pensiero. Solo così il nostro pensiero si fa “incantesimo”, e la nostra vita testimonianza. Eccoci nuovamente di fronte ad una scelta: o il nostro linguaggio assume la funzione di evocazione e, tenendoci distanti da ciò che descrive e riporta, ascrive il nostro pensiero a oggetti che gli sono esteriori, o agisce da incantesimo e rende interiore tutto quello che enuncia: non solo crea ciò che dice, ma ci trasforma subito in ciò che crea. Attraverso una sorta di mimo interiore, ci dentifichiamo in quello che afferma il linguaggio. Non ce ne distinguiamo più: lo siamo”.

(N. Grimaldi, Socrate, lo sciamano. Il primo guaritore di anime; Asterios, Trieste 2012; pp. 92-96)

Ebbene, direi di no. Qualcosa di Ennio Flaiano

Quarant’anni fa si spegneva il giornalista e scrittore Ennio Flaiano, fumatore di pipa. Ma come per Buzzati, anche per EF “giornalista e scrittore” sono sostantivi troppo poveri: ha letto e interpretato l’Italia del cosiddetto boom economico con la capacità di rimanere al di fuori degli schemi e delle consorterie.

Forse per questo di lui oggi si parla molto poco.
Leggendo alcune delle sue opere, la sensazione è quella di un intelletto vigile, abituato a frequentare opposizioni e incongruenze, a cogliere il limite della vita sociale e culturale del nostro paese, quasi sempre con ironia, talvolta con sarcasmo e una certa malinconia.
Quel che rimane invariata è la passione per la libertà, o meglio per la liberazione: usare le parole per indicare vie d’uscita, strettoie necessarie per mantenersi autonomi da “si dice, si fa”, siano essi prodotto del pensiero massificato o da qualche élite culturale.

Limitandomi ad un culto privato della Libertà, non sono inserito nei miei tempi. Vorrei cavarmela, insomma, e salvare la faccia, amando la Libertà: impegno che non mi costa nulla, perché l’amiamo tutti ovviamente, anche se ognuno dandole un diverso scopo e significato. Per difendere questa Libertà che io dico di amare, io dovrò invece definirla, darle un programma, rifletterla nei miei scritti, farle dei proseliti. Ebbene, direi di no. Questo mi sembrerebbe il più assurdo dei disegni perché io penso (guardi fin dove giunge il mio amore) che la Libertà è una forza vitale che può essere oscurata, mortificata, ma non soppressa e che ogni uomo, in un preciso momento della sua vita, impara veramente ad amarla; ma che pretendere di anticipare questo momento è avventato, anzi illiberale”. («Il Mondo», 6 novembre 1956)

La capacità di mettere alla berlina le ambiguità “di regime” di molti comunisti dopo i fatti di Budapest del ’56, avvicinano radicalmente EF ad Albert Camus: se il secondo comincia tardi ad essere letto come genuino filosofo, il nostro ha probabilmente cercato ogni strategia per non essere annoverato nemmeno tra i pensatori. Una costante allergia alle etichette.

Il giovane amico comunista mi saluta, mi guarda fisso, parla del tempo, di un film che vorrebbe vedere. La sua calcolata indifferenza finisce per rattristarmi. Cerco invano nei suoi occhi un’ombra di dubbio o di vergogna, non c’è niente, nemmeno il dispiacere di quest’amicizia che finisce. Sappiamo che eviteremo disalutarci, di stringerci la mano, perché io non saluto né stringo le mani agli enti, alle associazioni, alle mafiem ai dogmi, alle ragion di stato”. “Oggi leggo su «L’Unità»: «i teppisti controrivoluzionari», riferito agli insorti di Budapest. E’ un’inesattezza, professore! (EF si rivolge a Togliatti, ndr). Abbiamo già sentito un linguaggio simile, nel ’44, quando gli SS parlavano di «delinquenti badogliani», per riferirsi agli assassinati delle Fosse Ardeatine“. («Il Mondo», 20 novembre 1956)

Quanto emerge non è polemica ideologica, scontro tra teoremi diversi, narrazioni collettive opposte. Piuttosto una beffarda pena, senza smarrimento – e quindi piuttosto con disincanto -, per i cancelli che da soli, o bene accompagnati, imponiamo alla nostra mente. Piccinerie culturali.

La signora elegante (…) dice, parlando di una rivista di varietà a cui ha assistito: «Divertentissima. Mi sono p… sotto dalle risate». Il signore alla moda che l’accompagna, soggiunge garbato: «Ma cara, si faccia fare la psicanalisi delle urine». – Una società simile non ha più bisogno di niente: sa quel tanto che le basta per credersi colta e ha fiducia nella volgarità per ciò che supera i suoi interessi“. («Il Mondo», 12 novembre 1957).

Tale medesima società, la nostra, non pare esser mutata. Siamo così abituati ai velocissimi cambiamenti della tecnoscienza, da scordarci che quel noi siamo oggi in fondo è cominciato ad esistere compiutamente nel secondo dopoguerra (qualcuno direbbe anche prima del primo). Non è un tempo meraviglioso e lontano, è solo l’inizio. E così, quel che EF nota di un gruppo di ragazze, potrebbe benissimo essere detto di qualche studentessa di oggi, con l’unica differenza che la serietà da lui allora evidenziata si è trasformata oggi in una sorta di seria leggerezza, nella quale si muove la consapevolezza che la responsabilità è anch’essa un gioco:

Danno l’impressione di aver saltato un’età e di essere già le loro stesse madri, deluse di una vita che le ha rese responsabili, rimpiangendo la felice adolescenza, che si apriva come un sipario su tutte le loro ambizioni, e su molte legittime curiosità“.
(«Corsera», 23 settembre 1960).

Fecondo sceneggiatore, EF comprese subito la potenzialità del mezzo visivo, la potenza dell’immagine e la sua supremazia rispetto alle altre impressioni sensibili in tutto ciò che è pubblico. Quanto egli ritrae, descrivendolo, è spesso cinematografico anche se non composto immediatamente per il cinema. Collaboratore di Fellini, EF sa che l’immagine è ambigua in duplice modo: sia perché, come segno, rimanda ad altro, come ogni linguaggio, ma anche e soprattutto perché essa riesce a nascondere questa sua capacità simbolica, proponendosi come realtà delle cose. Le cose stanno come si presentano al mio sguardo, ora? Si, ma anche no. Eppure il “ma anche no” sfugge.

La realtà (rispetto a quanto descritto dal film ambientato in Via Veneto, La dolce vita, ndr) è migliore, in un certo senso: più agghiacciante. I caffè della strada si sono tutti rinnovati e così vistosamente che si pensa subito alla loro solitudine invernale quando – finita la bella stagione – la loro gaiezza risulterà inutilizzata e susciterà malinconia, come un luna-park sotto la pioggia. I cattivi arredatori interpretano bene la nostra sete di sfarzo, e il Caffè – vecchio baluardo della borghesia – è diventato la mostra del mobiliere. Sono spariti i divani foderati di cuoio e di velluto, gli specchi che moltiplicavano le prospettive, i camerieri sordi e venerabili e i tavoli di marmo sui quali si poteva disegnare. Adesso i caffè sembrano alcove, pagode, padiglioni di cura, tombe di famiglia“. («Europeo», 15 luglio 1962)

Osservare i propri simili, sapendone la similitudine, come seduto da un tavolino di caffè. Non so se EF potrebbe oggi apprezzare tale medesimo sguardo posato sulle cose a partire da un weblog come questo. Ma la realtà multiforme appariva ai suoi occhi non dissimile dal turbinio del materiale on-line dei nostri tempi: un deposito enorme, da maneggiare con cura.

Lavoro immenso che si presenta a chiunque volesse, oggi, mettere su un archivio di sciocchezze: imbarazzo nella scelta, rinvii ad altre voci, ripetizioni, cataloghi di formule che hanno fortuna. Alla fine, un lavoro sulla stupidità contemporanea diventa stupido, questo è il punto. Se ne può restare affascinati. («Corsera», 18 gennaio 1970)

Contemporaneamente a Noam Chomsky, forse addirittura prima, se pur in altro modo, EF riconobbe il fascino e la pericolosità di una società centrata sull’informazione e sulla visibilità. L’imposizione del pensiero di regime non può più essere fatta attraverso azioni coercitive, data la democrazia; altri sono i mezzi, sempre più subdoli, perché rispettosi in apparenza delle scelte individuali e invece capaci con ancor più forza di un manganello di convincere, di addormentare, di renderci piccoli e impotenti.

Il tiranno più amato è quello che punisce per una sua esclusiva ragione, la ragione che riguarda la sua propria esistenza. Chi tocca i fili del tiranno, muore. Ma con la vastità delle informazioni e quindi con la molteplicità delle emozioni che ogni giorno si scatenano in un mondo sempre più al limite dell’isterismo, le dittature hanno infine scoperto la magnanimità. Esse condannano a morte i loro nemici (il mondo freme e sussulta), e il giorno dopo li graziano. Così il mondo respira di sollievo, scodinzola di riconoscenza e rovescia altro amore sulle magnanime dittature”.
(«Corsera», 21 febbraio 1971)

Sidereus Bloggus

Lo sfondo rinnovato di comegufi è un minuscolo omaggio a Galilei.
E’ un suo disegno delle Pleiadi, tratto da un antesignano dei blog scientifici, il Sidereus Nuncius.
La foto qui sopra è scattata al Museo Galileo, già “Istituto di Storia della Scienza” di Firenze ed è opera dell’occhio prezioso di Nat (grazie!).

A proposito di astronomia, storia e scienze:
Il CIRSFIS (Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia e Filosofia delle Scienze – Università degli Studi di Padova) organizza la Scuola estiva in Storia e Filosofia delle Scienze, dal 18 al 21 luglio 2012, a Feltre (BL). Il tema, interessante e supertrasversale, è “I nomi del tempo” Qui le info. Le iscrizioni sono chiuse, a dire il vero. Ma tra i docenti c’è un grandissimo astronomo… di casa.