Il lavoro che slega

Ennio Ripamonti: Il lavoro che slega.
La comunità alle prese con le nuove forme di impiego

ripamonti2014L’incontro di sabato 12 aprile con Ennio Ripamonti (presso il Centro Universitario, dalle 9,30) è proposto dalla Scuola del Legame Sociale insieme a “Un attimo di Pace“, una proposta voluta dal vescovo di Padova per raggiungere gli adulti della città, della diocesi e quanti verranno a contatto con l’iniziativa tramite il web per proporre alcuni momenti di riflessione e spiritualità non convenzionale.

“È arrivato il tempo di cambiare marcia, con una rinnovata assunzione di responsabilità che veda prevalere l’impegno e la disponibilità di tutti verso il lavoro.
Con il lavoro, c’è da salvaguardare il bene incommensurabile della coesione sociale e, soprattutto, di quella spirituale e culturale dei nostri popoli che – resi ricchi dal dono della fede e con una laboriosità esemplare e intelligente – hanno saputo compiere nel tempo memorabili opere di promozione umana.”
Con queste parole (estratte dall’appello completo) i Vescovi del Triveneto hanno ricordato la ricorrenza del 1° maggio 2013 e da queste parole ci piace partire per introdurre l’appuntamento con Ennio Ripamonti.

Ci chiediamo quanto l’attuale condizione lavorativa rifletta la società o, al contrario, la deformi.
E’ la mancanza di legame sociale a generare forme di lavoro “impersonali” oppure è il mercato del lavoro, caratterizzato da precarietà e mancanza di politiche di conciliazione, a portare ad un logoramento della coesione? Lo scontro intergenerazionale è padre o figlio di un sistema lavorativo senza “maestri” e senza “discepoli”?
Cercando di indagare questi elementi, e ripartendo dal legame sociale, potremo tessere le fila per rinnovare il lavoro e ri-considerare come elementi cardine per il benessere individuale e comunitario, lavorativo ma non solo, la fiducia, la solidarietà e la valorizzazione delle competenze.

“Il tema mi riporta alla mente il breve saggio La società della stanchezza, nel quale Byung-Chul Han sottolinea proprio come la pressante richiesta di prestazione si traduca in una richiesta lavorativa che aliena non solo il singolo, che è visto (e si vede) come super-individuo, ma anche i gruppi, le comunità. E’ possibile che ad essa si possa rispondere solo rivedendo i tempi di lavoro e soprattutto di relazione? Questo significa probabilmente anche rivedere il lavoro come valore, o meglio la sua posizione nella gerarchia valoriale. E’ il lavoro-per o il lavoro-con che mi umanizza?
Dall’altro lato adottiamo come riferimento Richard Sennett, non solo de L’uomo artigiano, ma forse soprattutto di Insieme: le pratiche dialettiche (comunicazioni di nozioni/dati volte ad essere utilizzate in velocità, in ordine all’efficacia) sembrano avere la meglio su quelle dialogiche (che però costituiscono il cuore di esperienze lavorative più “umane”). Il modo con cui stiamo al lavoro ha a che fare con il modo con cui pensiamo e viviamo l’essere gruppo/comunità?”

Ennio Ripamonti è psicosociologo e formatore, docente a contratto di ricerca intervento di comunità presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Si occupa di programmi di sviluppo di comunità nel campo delle politiche di welfare, prevenzione, cittadinanza attiva, rigenerazione urbana e politiche giovanili.

Poche ossa, poca carne

COLLOQUIO NOTTURNO
(Davide Maria Turoldo)

E quando la notte fonda
ha già inghiottito uomini e case,
una cella mi accoglie
esule del mondo. Gli altri
nulla sanno di questa mia pace,
di questi appuntamenti.

Forse neppure io stesso
saprei rifare l’itinerario del giorno,
ripetere la danza del mio Amore.
Quasi nulla avanza di me
la sera: poche ossa, poca carne
odorosa di stanchezze,
curvata sotto il peso
di paurose confidenze.

Allora Egli mi attende solo,
a volte seduto sulla sponda del letto,
a volte abbandonato sul parapetto
della grande finestra. E iniziamo
ogni notte il lungo colloquio.

Io divorato dagli uomini, da me stesso,
a sgranare ogni notte il rosario
della mia disperata leggenda.
Ed Egli a narrarmi ogni notte
la Sua infinita pazienza

E poi all’indomani io, a correre
a dire il messaggio incredibile
ed Egli ferino al margine delle strade
a vivere d’accattonaggio.

(da O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1990, pag. 166)

Quasi una dichiarazione

0_eb441_fbef353d_origS’incontrano, anche nelle pieghe della Rete, le persone illuminate.
La loro luminescenza traspare dalle parole, quando raccontano la vita e la Storia.
Grazie ad Ornella, per questa sua dichiarazione.

 

Amo le svolte, spio le trasformazioni. Le vedo nella mia vita, imparo a riconoscerle intorno. Ho scoperto di essere “un soggetto” che all’improvviso si scopre “processo”,
come dice F. Jullien ( le trasformazioni silenziose).
Penso che oggi sia importante per tutti scrutare le trasformazioni:
in ogni campo e ad ogni livello. Per non cedere allo scetticismo,
non cadere nel disfattismo; ma anche per non irrigidirci dentro a schemi superati,
disegni già da tempo insufficienti a spiegare il mondo.

Architetto, ex insegnante di Arte, praticante di calligrafia cinese da nove anni (ci tengo),
ho la stessa età di Erri De Luca.
Sono nata lo stesso giorno di un ragazzo della primavera di Praga
morto in piazza san Venceslao.
In terza media ho fatto il tema sulla morte d Kennedy.
Alle elementari avevo fatto il dettato sulla morte di Arturo Toscanini.
Ero sveglia la notte dell’uomo sulla luna
A piazza Fontana ero passata qualche ora prima.
Ero incinta quando hanno ucciso Aldo Moro.
In via Fani, in via d’Amelio e a Capaci ci abbiamo portato i figli, perché sapessero.
Ho amato il greco, sognavo in latino
Ho creduto che l’architettura poteva salvare il mondo
Bauhaus e Le Corbusier
Stavo per andare a vivere in una comunità senza futuro.
Mi ha salvata Martini.
Ho creduto alle utopie. Alle Grandi Verità.
insieme alle utopie mi sono sentita crollare, mattone dopo mattone.
per anni.

Nel naufragio,
Impreviste zattere di salvataggio e stelle polari.
un giorno ne farò l’elenco ragionato.

Benedetto il naufragio
E le zattere
E le stelle.

Ho cambiato parole.
Ho perso: certezza, verità, assoluto, per sempre, universale, …
Ho guadagnato: fessure, tracce, contaminazioni, intrecci, forse, adesso.
Ho reinterpretato: bellezza, passione, responsabilità , onestà, libertà, …

Le cose adesso stanno così:
In pensione, come anche Federico, mio marito.
Nonni part time.
Nell’intreccio dei giorni, finalmente, un poco
anche il lusso di fare quello che ti sembra bene e che sai fare: ascoltare, appassionarti delle voci diverse (come accade nei viaggi), inventare intrecci, cogliere assonanze,
tentare collegamenti, aprire fessure.
Fidarsi dell’inutile (non come futilità‘, ma come gratuità),
coltivare bellezza (non come decorazione e abbellimento, ma come gesto, segno, visione, che rivela e convince). Appassiona.

“Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno sa l’utilità dell’inutile.” (Zhuang-zi)

Parola del giorno:
Fare bellezza è un compito politico.
Uscire dal vortice del negativo, dal disfattismo

Sto studiando la calligrafia cinese e la cultura orientale,
conquistata dalla dimensione etica dell’arte e del pensiero là, a oriente.
E’ ricerca, è purificazione, è consapevolezza.
Ciò mi rende più agile e leggera nel cercare di creare cose (arte?) dove non c’è chi produce e chi fruisce, o compra, ma dove si offrono occasioni per creare insieme, per cucire e sovrapporre, annodare, allacciare , intravedere, socchiudere.

Talvolta incontro compagni di viaggio.

Sui giovani – dei giovani

aperteLeggo molto, in rete e su carta, di discorsi sui giovani, e poco i discorsi dei giovani. Noi che rivendicavamo il nostro anticonsumismo (a parole), condanniamo il loro. Noi che ci intrappolammo, come diceva ancora Pasolini, nel nostro mondo a parte, rivendichiamo quel mondo a parte come l’unico possibile. Vorremmo che i nostri figli fossero il nostro specchio: ma i figli sono altro da noi. Ci innamoriamo di quella che vorremmo la loro perfezione, invece di amare la loro unicità.

Sul BLOG di Loredana Lipperini.

Alameda

Ha più di 5 milioni di abitanti, non so quanti milioni di automobili, e quanti miliardi di claxon e sirene e tubi di scappamento. Ci sono cani randagi dappertutto e anche persone randagie, che vivono per strada, dormono per strada, a volte bevono fino a stramazzare al suolo, altre volte evidentemente non hanno sete e restano lì, a chiedere l’elemosina, a guardare la gente che passa, o a dormire, in maniera più o meno strutturata, a lato della strada. La città è tagliata in due dalla “alameda”, che in realtà si chiama Avenida Libertador General Bernardo O’Higgins, e non so se è più lungo il nome o la strada stessa. Che è anche larga, otto o nove corsie, perchè una corsia mi sa che è per gli autobus, ma solo in un senso di marcia, chissà perchè. Un pezzo della alameda lo percorro tutti i giorni a piedi per andare al lavoro, e ogni giorno è un film, perchè non c’è solo il traffico delle auto, il più banale, ma c’è anche quello pedonale, con fiumi di gente che cammina nei due sensi, ma così tanta che a volte mi trovo bloccata e non riesco neanche a superare chi va più piano perchè sta scrivendo al cellulare, perchè è su una sedia a rotelle, o perché semplicemente non ha fretta (non che io ne abbia, peraltro). E poi è tutto un festival di economia informale, ossia di gente che per strada vende qualsiasi cosa, dall’accendino, all’abbigliamento, all’attrezzo per scavare le zucchine a quello per sturare il lavandino. E ogni giorno è diverso, così che non c’è da annoiarsi, ma anzi si scopre sempre qualcosa, e ogni tanto ti compri una spremuta d’arancia per il viaggio, o qualche cosa che puoi evitare di comprare al supermercato e lo compri direttamente sulla Alameda. Mitica Alameda, che devi imparare dove la puoi attraversare, perché non è che puoi attraversarla dove ti pare e a volte, se ancora non sai bene, ti tocca fare dei giri assurdi prima di trovare l’agognato passaggio pedonale. I cani randagi sono intelligenti, e hanno capito come si fa, ed è incredibile vederli che aspettano il semaforo verde prima di farsi traascinare dall’onda umana che li porta al di là della strada.

Continua a leggere il report, di Michela Giovannini, da Santiago del Cile QUI.

Quando ciò che è normale non è etico

New York Times – 10 giugno 2013
Quando ciò che è normale non è etico
di Paul Krugman

È da un bel po’ che mi occupo di economia, da così tanto, in effetti, che mi ricordo ancora di quello che era considerato normale nei giorni di tanto tempo fa, prima della crisi finanziaria. Normale, allora, significava un’economia che cresceva ogni anno di un milione o più di posti di lavoro, abbastanza per tenere il passo con la crescita della popolazione in età lavorativa. Normale significava un tasso di disoccupazione non molto al di sopra del 5 per cento, se non per brevi recessioni. E anche se la disoccupazione c’era sempre, normale significava che pochissime persone rimanevano senza lavoro per periodi prolungati.

Come avremmo reagito, in quei giorni di tanto tempo fa, alla notizia diffusa venerdì che nel nostro paese il numero degli occupati è ancora inferiore di due milioni a quello di sei anni fa, che il 7,6 per cento della forza lavoro è disoccupato (e molti di più sottoccupati o costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione), e che fra i disoccupati più di quattro milioni sono senza lavoro da più di sei mesi? Beh, sappiamo come ha reagito la maggior parte degli addetti ai lavori: hanno detto che tutto sommato erano buone notizie. In effetti, alcuni stanno anche celebrando queste notizie come “prova” che l’ostruzionismo del partito repubblicano non sta facendo alcun danno.

In altre parole, il nostro discorso politico è ancora molto lontano dall’occuparsi di ciò di cui si dovrebbe occupare.

Per più di tre anni, alcuni di noi hanno combattuto l’ossessione distruttiva che ha portato l’élite politica a occuparsi soprattutto dei deficit di bilancio, un’ossessione che ha portato i governi a tagliare gli investimenti, quando avrebbero dovuto aumentarli, a distruggere posti di lavoro, quando creare posti di lavoro avrebbe dovuto essere la loro priorità. Ora quella lotta sembra largamente vinta – credo di non aver mai visto un crollo intellettuale improvviso come quello delle basi razionali della politica economica fondata sulla dottrina dell’austerità.

Ma che gli addetti ai lavori sembrino aver smesso di preoccuparsi per le cose sbagliate non è sufficiente. Bisogna anche iniziare a preoccuparsi per le cose giuste – vale a dire, per la condizione dei senza lavoro e per l’immenso spreco costituito da un’economia depressa. E questo non succede. Invece, i politici, sia qui che in Europa, sembrano attanagliati da una combinazione di compiacimento e di fatalismo, dalla sensazione che non c’è niente che debba essere fatto e niente che si possa fare. La sensazione che tutto quello che si può fare è alzare le spalle.

Anche le persone che siamo abituati a considerare i buoni, i politici che in passato hanno dimostrato di preoccuparsi davvero per la nostra debolezza economica, in questi giorni non stanno mostrando molta consapevolezza dell’urgenza di intervenire. Ad esempio, lo scorso autunno alcuni di noi sono stati molto incoraggiati dall’annuncio della Federal Reserve che stava preparando nuovi provvedimenti per sostenere l’economia. Dettagli politici a parte, la Fed sembrava voler segnalare la sua intenzione di fare tutto il necessario per ridurre la disoccupazione. Ultimamente, però, da parte della Fed si sente per lo più parlare di disimpegno progressivo, anche se l’inflazione reale è al di sotto di quella prevista, mentre la situazione occupazionale è ancora disastrosa e il ritmo del miglioramento è quasi impercettibile.

E i funzionari della Fed sono, come ho detto prima, i buoni. A volte sembra che, al di fuori di essi, nessuno a Washington consideri l’elevata disoccupazione un problema.

Perché la riduzione della disoccupazione non è una delle principali priorità della politica? Una risposta potrebbe essere che l’inerzia è una forza potente, e in politica è difficile ottenere cambiamenti senza la minaccia del disastro. Finché aggiungiamo, e non perdiamo, posti di lavoro, finché la disoccupazione è sostanzialmente stabile o in calo, non in aumento, i politici non sentono alcuna necessità urgente di agire.

Un’altra risposta è che i disoccupati non hanno molta voce politica. I profitti sono alle stelle, la borsa va bene, quindi le cose sono OK per le persone che contano, giusto?

Una terza risposta è che in questi giorni noi non sentiamo più tanto i falchi del deficit, mentre i falchi monetari – cioè gli economisti, politici e funzionari che continuano ad avvertirci che i bassi tassi di interesse porteranno a conseguenze disastrose – hanno, se possibile, alzato ancor più la voce. Nessuno sembra dare importanza alla lista impressionante di previsioni sbagliate che li accompagna (dov’è l’inflazione galoppante che avevano promesso?) proprio come quella che accompagnava i falchi fiscali. Ora gli argomenti cambiano (parlano di bolle speculative), ma la richiesta politica che fanno – bilanci più rigidi e tassi di interesse più elevati – è sempre la stessa. È difficile sfuggire alla sensazione che la Fed non si muova perché intimidita.

La tragedia è che tutto questo è inutile. Sì, si sente parlare della “nuova normalità” di un tasso di disoccupazione molto più alto, ma tutte le ragioni per questa presunta nuova normalità, come ad esempio la presunta mancata corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e le esigenze dell’economia moderna, cadono a pezzi quando le si esamina accuratamente. Se Washington avesse invertito i suoi distruttivi tagli di bilancio, se la Fed avesse mostrato la “determinazione rooseveltiana” che Ben Bernanke chiese ai funzionari giapponesi quando era un economista indipendente, avremmo da tempo scoperto che non c’è niente di normale e necessario nella disoccupazione di massa di lunga durata.

Quindi, ecco il mio messaggio ai politici: così com’è l’economia non va affatto bene. Smettetela di alzare le spalle, e fate il vostro lavoro.

(Traduzione di Gianni Mula; grazie a Enrico Peyretti)