Etty Hillesum

“Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano di percorrere le strade verso la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori, col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e la millanteria che maschera la paura. Certo, ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia siamo soprattutto noi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. […] Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo si sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. E’ l’unica soluzione possibile”.

(grazie Angelo Casati, per questa citazione dal diario)

La scuola diventerà un boomer-splaining?

ora-di-lezioneIl “programma di ricerca metafisica” costituito dalla psicanalisi – come lo definiva Karl Raimund Popper -, anche e forse ancor più nelle sue versioni (eterodosse e perciò feconde) junghiana e lacaniana, offre senza dubbio la possibilità  di leggere le dinamiche del presente, e in special modo le relazioni tra adulti e ragazzi.

Così ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, 2014), Massimo Recalcati potrebbe riuscire davvero a darci alcuni strumenti per interpretare parte di quello che avviene, o non avviene ma dovrebbe, nelle classi scolastiche di oggi. La tesi è subito chiara (p. 5): la funzione dell’insegnante è insostituibile. Eppure va ripensata, perché è cambiato il mondo fuori dalle pareti della Scuola, ad opera, soprattutto, di un attore invadente e inarrestabile: il mercato. La logica neoliberista, il capitalismo attuale, produce risposte ai bisogni e, se non ne trova, ne crea di sempre nuovi. Concretizzare questo meccanismo richiede velocità  e competenza: si tratta di saper cogliere ciò di cui ora (non dopo, o domani) c’è richiesta e predisporre la soluzione da vendere, la comunicazione per convincere di questa opportunità , la logistica per farla arrivare “a casa”.

Secondo Recalcati, che si richiama a Pasolini, il trionfo della società  dei consumi ha generato una «pedagogia neoliberale che riduce la Scuola ad un’azienda che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema» (p. 12). La priorità  data alla performance cognitiva emargina tutto ciò che è deviante, divergente, critico, alternativo, zoppicante Elementi invece necessari in ogni autentico processo di formazione.

Questa critica, di principio condivisibile, intende colpire quel che la Scuola dovrebbe diventare (scuola-azienda con prèsidi-manager; valutazioni standardizzate; diffusione dell’iper-tecnologia) oppure si rivolge a quel che la Scuola per certi aspetti è già  nella misura in cui la centralità  della prestazione ben si comprende nell’ambito della «collusione tra il narcisismo dei figli e quello dei genitori» (p. 25)? Forse l’alternativa è falsa, per certi versi, e si tratta di due aspetti del medesimo fenomeno. Il trionfo dell’io della/nella Generation-Me, figlia della liberazione 68/77ina (o di un suo esito), si fonda insieme sulla estrema competenza nel focalizzare i desideri e sull’abilità  nel rendere il percorso per esaudirli quanto più lineare possibile. E’ la Scuola-Narciso (pp. 24 e sgg.), che, dopo le barricate della Contestazione, ha preso il posto della versione edipica dell’istituzione formativa (pp. 20 e sgg.).

Non diversamente, Laura Pigozzi, in Mio figlio mi adora (Nottetempo, 2016), sulla scia di Hegel letto da Lacan: «ogni sapere che si vuole tenere al riparo dal coinvolgimento e, quindi, da eros e pathos, è morto, vuoto. Il sapere che conta è quello che è costato la pelle, non quello della prestazione, dell’informazione, dei tecnicismi o dell’obbedienza, ma il sapere legato al rischio, commesso alla passione, che contrasta l’apatia e va in un’altra direzione rispetto all’anestesia contemporanea» (p. 43). Solo il ritiro dei genitori di fronte al percorso dei figli adolescenti (ma anche bambini) può aprire lo spazio necessario di una separazione che sia generativa in senso pieno, quello per cui la creatura è “messa al mondo” e non messa in casa.

Già  – si potrebbe dire, andando oltre questi saggi – ma non tutti i genitori sono disposti a far carte false per spianare la strada ai figli. Ve ne sono di esigenti, sia con loro che con la scuola.
Qui la richiesta performante pare allearsi a quella protettiva di “scuole come una volta”- specie in gruppi sociali benestanti e preoccupati – , e così incrociare e cibarsi fatalmente della tendenza conservatrice (per questioni di età, ma anche di autodifesa) di una parte del corpo insegnante, specie nel sistema dei licei. Creando la curiosa situazione di dirigenti disposti a comprendere (per forza di cose) le istanze di una certa parte dei genitori (narcisi e/o iperprotettivi, o solo in crisi) ma forse in aperto conflitto con porzioni del proprio corpo docente; oppure di docenti che, ripetendo modalità adottate da loro stessi decenni fa o mutuate dai propri insegnanti, si attestano su una frontalità che non è di per sé inefficace (almeno secondo studi di Evidence-based education, per es. QUI), ma che potrebbe non lasciar alcuno spazio al momento di rielaborazione e costruzione condivisa del sapere.
E così, rischiando di dividere i collegi docenti tra presunti docenti-colomba, che in realtà si pongono il problema non di spiegare il mondo, ma di capirlo insieme alla classe e presunti docenti-falco che invocano un maggior rigore (una narrazione riesplosa dopo la fase di restrizione pandemica).

Per i secondi, Dirigenti e Ministero (specie quello della nefanda Buona Scuola) rappresenterebbero quindi fenomeni di “corruzione” della sana istruzione, ormai mercificata e ridotta a test Invalsi, di contro alla maggioranza degli insegnanti (parlo dei segmenti superiori), arroccati sull’aventino. Sono essi davvero la parte più numerosa? Non si sa, ma non solo in occasione delle proteste contro i tentativi ministeriali, molti di costoro impiegano una retorica della minoranza in piena azione resistenziale. Nello stesso tempo, un insegnante o una insegnante che chiede molto rassicura una parte di genitori e insieme li preoccupa, quando vedono la prole «star su fino all’una di notte” (e la prole stessa si sente però ingaggiata) o raccontar loro dei compagni e compagne di classe che si ritirano da scuola (o il darwinismo scolastico è banco di prova del valore di mia figlia, mio figlio?).

Decenni di sacrosanta psicologia dell’apprendimento, dell’età evolutiva, dell’adolescenza sono però arrivati a informare il linguaggio anche di ragazze e ragazzi, che da oggetto non identificato osservato nel microscopio degli adulti, stanno diventando anche soggetto del proprio percorso educativo-formativo. Potrebbero, al rimbrotto, non rispondere più con un grugnito, chiudendosi alle spalle la porta della cameretta, ma rispondere a tono «che cosa vuoi da me, sono un adolescente!». Il meccanismo della ricompensa, struttura fondamentale dei social non è più un ladro che agisce nell’ombra: ragazze e ragazzi lo conoscono, e non ci fanno caso, prendendo semplicemente atto che non trovano alcuno stimolo a stare di fronte ad un’   i n t e r a   pagina di manuale. Il mercato dunque suggerisce video, brevi se possibile (ma nell’ansia preverifica anche una ventina di minuti è accettabile) che ti spiegano le leggi di Keplero o l’eterno ritorno di Nietzsche. La scuola tenta di rispondere con strategie come la flipper-classroom – ottima iniziativa. Ma poi, abbiamo gli strumenti (le griglie per es.) per valutare un dibattito in classe? Se il docente-colomba costruisce un modulo sulla base di un lavoro di gruppo, come potrà valutare la percentuale certa (minima spesso) di alunn* che, indaffarati a recuperare l’altra disciplina, o semplicemente underachiever, lasciano il lavoro a* compagn*? Perché, per gli e le altr*, il voto di un tal lavoro dovrebbe valere al 30, 50, 70 percento, di contro alla classica prova orale o scritta?

Il limite di tutto questo pippone è semplice: i docenti, le docenti, non hanno tempo (voglia?) di aprire uno spazio di riflessione tra loro o con la componente studentesca e genitoriale. O meglio, potrebbe anche accadere (raccontatemelo), ma non è certo prassi comune. E, poiché, in ogni caso, cascasse il mondo, si deve arrivare al numero congruo di valutazioni, che a scuola significa voti numerici (cosa per nulla ovvia), la macchina procede imperterrita. Ragazze e ragazzi (i bambini non ancora) ci osservano e spesso accettano, un po’ perché “si è sempre fatto così” (e la cosa rassicura), un po’ perché sono avvezzi a gente-adulta-che-spiega-loro-cose. AH! Vuoi vedere che – o tempora o mores – gli adulti non hanno più nemmeno il diritto di spiegare le cose? E se fosse proprio questo, il cambio di paradigma?

Un 25 aprile, ad Este

L’amministrazione comunale di Este mi ha chiesto di tenere l’orazione per il Giorno della Liberazione. Questo il testo.

Ho di cuore, e con una certa emozione, accettato l’invito della dottoressa Businarolo, nonostante i tempi stretti, dovuti alla malattia del prof. Angelini, che ringrazio da lontano per il suo impegno nell’ANPI.

Lo scopo di questo discorso è quello di commemorare, cioè di riportare alla memoria. Cum – memorare: rimettere al centro i fatti degni di essere ricordati. Questo è un primo senso della Festa odierna. Ma cum – memorare può essere inteso come il radunare coloro che sono memori, coloro che non dimenticano. Qui ci troviamo perché intendiamo ricordare.

Ecco, la prima fatica è proprio questa: non separare i fatti da ricordare da coloro che si sforzano di riportarli alla memoria. E’ legittima infatti la domanda, che immagino possa essere formulata da una delle ragazze o dei ragazzi che incontro a scuola, nelle ore di storia: ma tu, perché vuoi ricordare questi fatti?

Ma tu, perché vuoi ricordarCI questi fatti?

Se dimentichiamo questa domanda, quei fatti diventano dei fossili. Segni di una vita che non c’è più. Se dimentichiamo questa domanda, i morti vengono sepolti di nuovo, i sopravvissuti sono ridotti a monumento. Se dimentichiamo questa domanda, il motivo per cui essi sono morti, il motivo per cui hanno combattuto – anche se scolpiti nel marmo delle nostre lapidi – vengono ridotti a una delle tante scelte individuali, che in quanti tali, appaiono tutte uguali.

Se dimentichiamo questa domanda, facciamo
della nostra scelta di ricordare
una pratica di retorica.

Permettetemi allora di rifare questa domanda, a partire dalle parole di uno scrittore che si è posto la questione di una narrazione antiretorica della Resistenza e della Guerra civile

Luigi Meneghello,

parole di cui tra qualche giorno potrete godere appieno, nell’iniziativa che la Città di Este ha previsto per il 30 aprile.

Luigi Meneghello, di cui ricordiamo i cento anni dalla nascita.

In Fiori italiani leggiamo

S. sapeva che c’erano “antifascisti”, da tempo ne frequentava uno, una persona che ammirava e da cui era vivamente attratto. Stranamente invece (sembrano cose assurde, ma è la verità) non aveva pensato in modo esplicito che ci fossero dei “fascisti”, separabili dagli altri italiani, salvo in contesti banali, per esempio i professori di ginnastica, o i federali. Si affacciava un pensiero semplice e sconvolgente: S. non sapeva ancora che cosa fosse, ma sentiva con un misto di umiliazione e di paura che stava per saperlo.

Qual è questo PENSIERO SCONVOLGENTE che si affaccia alla mente e al cuore di questo giovane universitario?

Lo leggiamo poco dopo:

Devo ora parlare dell’uomo che fu il maestri di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo. L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione.
Poiché non è sopravvissuto alla guerra (morì a 32 anni, nel dicembre 1944) è naturale che la sua figura sia restata per noi nella luce in cui la vedemmo allora: credevamo di avere incontrato una personalità straordinaria animata da forze miracolose.
Oggi si potrebbe pensare che questo fosse soltanto un riflesso nei nostri occhi: effetto dello shock di avere incontrato un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo.

Lo shock di incontrare un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo.

Il riferimento non è a chi, come per esempio Gobetti, o i fratelli Rosselli, nati tra il 1899 e il 1901, comprendono già nei primi anni Venti quale fosse la direzione presa dall’Italia.
Meneghello, nato nel ’22, l’anno prima della Riforma Gentile della scuola, cresce come fascista: per lui, per la sua generazione, la medesima di Beppe Fenoglio o ancora di Claudio Pavone e di David Maria Turoldo poco più vecchi, il fascismo non è una opzione, è la normalità. E’ l’acqua in cui nuotano i pesci, che di essa nulla sanno, perché sono lì da sempre.

Scrive Meneghello (p. 28)
Quanto al fascismo, la scuola elementare risultava efficace: ciò che c’era da imparare s’imparava in modo definitivo, e non occorreva più tornarci sopra per tutto l’arco degli studi successivi.
e ancora (p. 31), parlando dell’Italia
il fascismo non è al centro: è dappertutto. Il ricordo della lotta ai sovversivi è distanziato, ora sembrano scomparsi (…); da qualunque parte la si guardi, la vita italiana appare fascistizzata senza residui.
Vi è più curiosità che rammarico, in queste parole di Meneghello.

Senza dubbio il fascismo agì come un potere coercitivo, con continuità e poi sistematicità. Ma – a spanne – tra il ’25 e la guerra, agisce nel fascismo anche un’altra forma di potere, ben più efficace, la capacità di PLASMARE IL FUTURO DELLE PERSONE, di prendere il posto nell’anima delle persone, di dar loro l’illusione avere un senso, una qualche collocazione.

«Lo studio dei regimi totalitari
dice lo storico Paul Corner,
suggerisce che violenza/repressione e partecipazione/consenso sono due facce della stessa medaglia (…) La maggior parte della gente probabilmente si trovava a metà: consapevole della brutalità fascista ma anche sensibile ai cambiamenti che il fascismo stava operando (…); non sposò necessariamente le politiche dittatoriali ed espansionistiche, ma era consapevole delle opportunità in termini di benefici personali e per la famiglia. E soprattutto sapeva di non aver scelta: i fascisti controllavano tutto (tranne la Chiesa) e l’accesso a lavoro, pensioni, assistenza sanitaria, permessi, licenze e così via dipendeva dal non contrastare il regime»

e Geraldine Schwarz, nel saggio I senza memoria. Storia di una famiglia europea
I genitori di mio padre non erano stati né dalla parte delle vittime né da quella dei carnefici. Non si erano segnalati per atti di coraggio, ma non avevano neanche peccato per eccesso di zelo. Erano semplicemente Mitläufer, persone “che seguono la corrente”, conformisti, gregari. Semplicemente: nel senso che il loro atteggiamento era stato quello della maggioranza del popolo tedesco, un accumulo di piccole cecità e piccole viltà che, messe l’una accanto all’altra, avevano creato le condizioni necessarie al compiersi di uno dei peggiori crimini di Stato organizzati che l’umanità abbia conosciuto.

Che cosa era accaduto?
Il potere del regime è stato quello di prendere le organizzazioni, specie giovanili, ma non solo, organizzazioni che avevano avuto un ruolo di unificazione sociale e di averle rese perverse, oppure di crearne altrettante, artificiali e egualmente perverse.

Là dove la perversione non era entrata,

pensiamo ai gruppi clandestini, ai gruppi in carcere o al confino (Il manifesto di Ventotene), pensiamo all’esperienza bellica in Russia di Nuto Revelli, ma anche agli insegnanti sospesi per motivi politici o a molti gruppi cattolici – per esempio parte della Fuci di Aldo Moro – o ancora alla cerchia di persone che gravitava attorno ad Aldo Capitini a Pisa –

in questi contesti era stato conservato lo spazio, direi l’energia mentale e spirituale, per una visione diversa della realtà.

Almeno due sono gli elementi che accomunano questo spazio:

da un lato, l’incontro personale, come quello descritto da Meneghello, con una persona non domata, non gregaria

Giuriolo per Meneghello, Piero Chiodi per Fenoglio, Eugenio Colorni o Nestore Tursi per Pavone, Eugenio Curiel per Turoldo e De Piaz.
Sono solo alcuni.

Ancora Meneghello

Un modo nuovo per fare i vasi ha una sua potenza educativa immediata; ma se si tratta di invece di fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne, non c’è forse altro modo che quello antico, paziente, difficile di esemplarli su modelli viventi. Un metodo che non si può importare, né copiare.
L’influenza di Antonio veniva dal profondo dell’uomo, era essenzialmente un esempio.

Dall’altro lato il percepire nella carne e nel sangue una tensione alla libertà, che diventa imperativo, dovere interiore

La libertà di Antonio era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici (p. 168)

E’ la stessa capacità di dire di NO che abita Piero Chiodi quando decide di reagire, o meglio ancora di agire altrimenti (da Banditi)

Una ventina di militi (della Repubblica Sociale Italiana, ndr) caricavano su un camion quattro giovani legati mani e piedi. Ho sentito uno gridare: – No, sono innocente! – Un’ora dopo ho rivisto i militi che cantavano in un caffé. Si è sparsa fulminea la notizia che i quattro giovani sono stati massacrati al Mussotto sul luogo in cui, giorni fa, era stata uccisa una SS.
Non posso trattenermi dall’infilare la bicicletta e recarmi al Mussotto. A cento metri dalla cantoniera, sul bordo della strada, una gran pozza di sangue. Un vecchio cantoniere mi descrive, piangendo come un bambino, la orribile scena. Allontanandosi dice: – E’ meglio morire che sopportare tutto questo.

“Meglio morire” per Piero significa: piuttosto sfidare la morte
perché
e torno a Meneghello

Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà: opporla a qualunque altra ispirazione morale e politica della comunità non è solo sviante, è mostruoso. Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di vivere.

Questa libertà, che si concretizza nella Liberazione,
non è UN valore tra tanti valori
è piuttosto un PRINCIPIO
cioè apre una direzione,
nelle parole di Pavone (Una guerra civile)
La ricostruzione di un più profondo sistema di umana solidarietà

o in quelle della non-violenza di Capitini
prendere le distanze da una civiltà che valuta positivamente soltanto chi fa, chi rende, chi è forte, chi è attivo

Non si è trattato di andare solo contro il fascismo, ma anche contro le condizioni che lo hanno permesso.
Non si tratta solo di rifiutare il fascismo, ma di comprendere in che modo esso si ripresenti, come dice Umberto Eco, in abiti civili, o con Foucault, nelle minute forme che fanno l’amara tirannia delle nostre vite quotidiane.
Questa potrebbe essere una riposta valida alla domanda che ci siamo posti all’inizio:
perché ricordare questi fatti?
Perché il compito di ricostruire un più profondo sistema di umana solidarietà non si è ancora concluso.

Grazie.

Materiali per/da Genova_2001

Raccolta di materiali vari ad uso didattico e mnestico, dunque resistenziale (in aggiornamento).

  1. Documentario Carlo Giuliani, ragazzo [link funzionanti al 10/07/21]

2. La trappola
Nel 2006 il Comitato “Piazza Carlo Giuliani” ha prodotto un documentario intitolato La trappola. Da allora lo ha più volte arricchito man mano che si acquisivano nuovi elementi. La trappola è oggi il compendio più fruibile delle verità  emerse da un enorme, pluriennale lavoro di indagine. Riassume, per dirla con un compagno che conosciamo, «lo stato dell’arte nella ricostruzione della morte di Carlo». Nelle parole di chi lo ha prodotto, il documentario «ricostruisce l’uccisione di Carlo e le violenze efferate compiute sul suo corpo, partendo da tutto ciò che deve essere considerato causa e premessa dell’omicidio». [dal sito di WUMING, qui, dove si trova anche il link all’inchiesta].

Dal sito del Comitato è possibile trarre anche informazioni sui PROCESSI avviati in questi anni: QUI (link dal menù di testa). Sui processi cfr. anche la parte finale della ricostruzione del ILPOST.

3. La Diaz (e Bolzaneto)
Per capire cosa sia stata: QUI, QUI (audio). Di seguito, il documentario di Carlo A. Bachschmidt.

4. Due podcast benfatti (clicca sull’immagine)

(a cura, tra gli altri, di Jonathan Zenti)

5. Libri (clicca sulla copertina)

6. Sommari e punti della situazione

Ricostruzione a cura di Stefano Nazzi de ILPOST.

Wu Ming dal 2009 ma attualissimo QUI

Genova 2001. Un seme sotto la neve – di Alessandro Leogrande QUI

Città  sommersa

Marta Barone
Città sommersa
Bompiani, 2020

«Il ragazzo corre nella notte». La scena, onirica, del giovane che percorre la città in pigiama e a piedi nudi, mentre tutti dormono, costituisce un ulteriore inizio della storia, che mi permetto di affiancare ai due indicati dall’autrice. Il primo, dedicato alla madre, presenza lieve che consegna, nel libro, poche ma decisive parole: se è vero che è la madre a costruire l’origine della figura del padre nella psiche del figlio, che apre all’incontro con lo straniero per eccellenza, allora lo spazio vuoto, come il «buco in testa» che immediatamente rapisce il lettore, è quello lasciato dalla sospensione di giudizio da parte di questa donna, spazio che permette alla figlia di ricostruire la relazione con il padre ridefinendone la figura.

Il secondo inizio, poche righe sotto, riguarda Marta e parla, a sua volta, di una figura da ridefinire, questa volta la propria, attraverso la ricerca delle informazioni sul papà, ma soprattutto le parole per dirlo e quindi dirsi. Marta dunque, come Atena, viene partorita dalla testa, ma non di Zeus, giacché egli è assente. E’ dunque una sapienza diversa, non trionfante o disvelatrice di verità marziali quanto di possibilità, per lo più irrealizzabili, come le parole che avrebbe potuto scambiare con il padre Leonardo o come le finalità politiche della lotta armata.

Il “terzo inizio“, se lecito, ha il potere di inserire il lettore nel dramma di questa città sommersa che è dramma di una notte di follia omicida, e insieme di anni insanguinati così vicini da sembrare impossibili e di una storia personale di un uomo irregolare, anti-eroico, perché chiamato sempre – da se medesimo – a ripudiare il piano astratto delle teorie rivoluzionarie, pur così attraenti, o delle istituzioni sanitarie, così potenzialmente – borghesemente – comode, attratto dal «diminuire aritmeticamente il dolore del mondo», come avrebbe detto Camus. Un uomo in rivolta, dunque – e per questo incompatibile con i tentati rovesciamenti totali del sistema.

Può essere davvero questo il modo per interloquire con i cosiddetti Anni di piombo, attraverso cioè la memoria individuale, necessariamente famigliare, che non viene ripercorsa in maniera intimista ma con uno sguardo informato sulla storia.
Viene in mente, con diversissimo stile ma eguale intensità, “I Senza memoria”, di Géraldine Schwarz, perché in entrambi i libri non si corteggia mai il lettore, né le sue emozioni. Marta Barone anzi ci interpella lucidamente, costruendo una certa complicità che senza artefizi conduce (o per lo meno mi ha condotto) alla nostalgia per questa persona e per altre come lui, alla fine vittime come la gente che ha sempre difeso.

La corsa del Leonardo giovane uomo richiama un altro attraversamento di città, stavolta davvero onirico, quello di Herlitzka/Moro, in “Buongiorno, notte”, di Marco Bellocchio. Due vicende nate dalla medesima follia, patologica e ideologica allo stesso tempo; lì la passeggiata melanconica cadenzata all’alba da Schubert, dopo le immagini tragiche dei funerali di Stato commentata dai Pink Floyd, qui una fuga con i piedi feriti, in cui “l’unica cosa autentica che irradia la notte è il sangue”, l’unico suono il fiato spezzato, le parole nella testa. Sullo sfondo, due città, Roma e Torino, addormentate, anestetizzate, sommerse dalla mancanza di senso.

Aule al pianoterra #6: Excusatio non petita

Un banalissimo incidente domestico non grave: la bimba si gira di scatto e colpisce con lo zigomo uno scaffale. Nulla di che: un poco di ematoma nero e la necessità di dover continuamente rispondere a amici maestre parenti su cosa mai sia successo. E’ il contorno, la vera ferita. L’amica della bimba offesa viene convinta dalla esperta e non giovane babysitter a dire che lo scontro sia avvenuto a scuola. Perché? Perché mentire e insegnare a mentire? Perché questa socievolezza con la menzogna?

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