Ricordati dove sei… Per divenire ciò che sei stato

Un’occasione, quella della giornata di formazione per gli animatori coinvolti nel Grest 2012 promosso da Oragiovane, per guardarsi indietro. Come altre volte, quando l’energia vitale chiama, le carte preparate vengono mescolate dal vento che si abbatte gagliardo. Quanto avevo scritto diventa afono, vedendo ragazze e ragazzi riuniti per “far bene il bene”.
E allora ho deciso di ricostruire la linea del pensiero, fidandomi delle suggestioni.

Una battuta, nell’onirico film di Serrentino, This must be the place, che il protagonista Cheyenne spara tra i ciuffi corvini alla Robert Smith, mi è parsa illuminante. Suona più o meno così: non ci si accorge di quanto breve sia il passo tra il “sarà così” e il “è andata così”. Le due affermazioni sono come le parentesi di una esistenza e la distanza tra di esse misura la realizzazione di questa esistenza stessa. Realizzazione, soddisfazione, serenità… forse felicità, sebbene quest’ultima sia parola piuttosto ingombrante.

Ma il laconico Cheyenne felice non è, e nemmeno soddisfatto. Chiede alla moglie, ma in realtà a se stesso, se per caso non si possa chiamare depresso. Ella semplifica: è solo noia. Ma, anche se il nome non emerge mai, si tratta “semplicemente” di tristezza, e di un tipo di tristezza particolarmente pervasivo, quello per cui la persona non riesce neppure a riconoscersi triste e vive, come dire, spostato rispetto a se stesso. In un altro luogo.

Questo luogo è il balcone di quella casa che possiamo chiamare vecchiaia, o per lo meno il suo inizio. E dal balcone ci si guarda intorno, giù, lontano, verso le strade della città e ci si dice che lì proprio non si vorrebbe essere, che altro avevamo immaginato, o non esattamente immaginato forse, ma si percepisce nettamente la differenza tra il desiderio degli anni giovanili e la realtà dei capelli bianchi (anche se colorati di nero).

Il vecchio guarda indietro, fa memoria. Ma se è triste, coglie il triste. E la memoria diviene una scatola di cose rotte, simboli muti. Avrei dovuto, avrei potuto. Cheyenne avrebbe dovuto dire altre cose al padre, che non ha fatto in tempo a salutare; avrebbe potuto andare a trovarlo prima che il tempo se ne mangiasse la vita. La memoria è la SCATOLA NARRATIVA della sua vita, il modo che ha sempre avuto per guardarsi, le cose che si è sempre ripetuto in testa. E, da sempre, si è ripetuto che il padre non gli voleva bene.

Che cosa porta un bimbo o un ragazzo a costruire questo pensiero, prima inconscio e poi consapevole, è comunque mistero. Simone Weil diceva che la sofferenza non ha spiegazione. E quando qualche nodo doloroso si forma nei capelli dell’infanzia, poi il lavoro del pettine potrebbe farsi delicato. Come Cheyenne, ciascuno di noi cresce in una scatola narrativa, diventa adulto con una serie di pensieri/regole/convinzioni che sono talmente appiccicate al corpo da sembrare epidermide.
Ma se siamo fortunati arriva la crisi che ci consente di uscire da noi, di non star più nella pelle, di non riconoscersi. Può essere il semplice sentirsi inadeguati, una mattina, seduti sul tram: guardi gli altri e li vedi così sicuri di sé, così a posto nel loro vestire, nella loro musica elegante sparata nelle orecchie, nelle loro scelte. E tu, inadeguato, impreciso.
Ma tu.

Il lavoro dell’educatore è un lavoro poetico, perché ha a che fare con parole nuove. Quelli che per molti – stanchi – genitori sono solo “quelli che fanno giocare i ragazzi del Grest”, sono invece potenziali guidatori di navicelle spaziali, piloti di aerei ipersonici, capitani di caravelle indomabilli. O anche, per stare al tema, archeologi indagatori del perduto.
Perché? Perché se scelgono di non ammaestrare, come domatori al circo, ma di ascoltare i ragazzi loro affidati, hanno il potere di creare le condizioni per cui, quegli stessi ragazzi, finalmente liberi di essere, possono intuire nuove parole per descrivere se stessi.
Si badi, non è una questione di età. Anche un bimbo può avvertire che l’adulto che gli sta di fronte si mette a disposizione oppure, come tanti altri, presenta un ulteriore dovere da aggiungere alla lista.

Dovete giocare! Dovete… essere felici. Come si fa ad imporlo? La cura nella preparazione di un Grest – sfondo integratore, tematiche pedagogiche, obiettivi delle giornate – non è lo scientific management applicato alla parrocchia. E’ lo sforzo amorevole di creare l’ambiente adatto in cui accada una relazione tra persone. E se si dà relazione, si dà educazione; e se si dà educazione, ciascuno incontrerà qualcosa di sé, una parola nuova per dirsi. Uscirà dalla vecchia scatola, o la amplierà. Si troverà spostato, o solo felicemente appagato.

Cheyenne è vecchio e non esistono i Grest per i vecchi (sarebbe un’idea). Ma riesce a uscire dalla sua scatola e a comprendere il duro linguaggio d’amore del padre. All’educatore, prima di colori, suoni, magliette e programmi, il compito di accogliere la propria personale scatola narrativa, di far memoria di sé per imparare come esistano davvero parole nuove, o occhi nuovi per vedere quelle passate. Come farlo? Guardandosi intorno, e cercando qualcuno da cui attendere una domanda.

 

il mistero della traduzione

Qualcuno ha detto che tradurre è tradire.
I traditores erano presbiteri ed episcopi cristiani costretti, nei primi secoli d. C., a consegnare i testi sacri alle autorità romane, pur di aver salva la vita. Di qui il senso della parola “traditore” nella sua accezione svalutativa. Che però in senso stretto vuol dire: colui che consegna. Tradire è consegnare, come Cristo consegnato da Giuda, ma anche come chi svela non volendolo un’emozione. Tradurre in realtà è da trans-ducere, che è condurre da un luogo ad un altro e quindi anche da una lingua ad un altro idioma.
Ma per tradurre è necessario affrontare il rischio di tradire: per consegnare alla mia lingua nativa un’opera scritta in un linguaggio da me appreso (o imparato da piccolo e poi approfondito) devo portare il peso, raccolto in ogni singola parola, di una tradizione, di un ethos e nello stesso tempo farlo incontrare con un altra tradizione, un altro ethos. Dalla frizione tra questi due massi, nasce la scintilla della comunicazione tra culture, che è sempre in primo luogo comunicazione tra due individui: il poeta/scrittore e il suo traduttore.
I traduttori sono poeti tanto quanto i poeti, scrittori tanto quanto gli scrittori.

QUI l’omaggio a Svetlana Geier, che viene da alcuni considerata la più grande traduttrice di Dostoevskij in tedesco.
Da parte mia un omaggio alla grazia dell’intelletto femminile, oggi 8 marzo, Giornata Internazionale della Donna.

 

 

Germi di salvezza universale

Sul “Corriere della Sera” del 18 febbraio scorso, Guido Ceronetti scrive un articolo denso, che si rivela provocatorio solo per chi avesse il tempo di intenderlo. Gioca infatti interamente sul binomio pazienza/comprensione del mondo, anche se titolo (Un servizio civile come antidoto alla brama del posto) e sottotitolo (I guai della disoccupazione mentale) parrebbero andare in altra direzione.

La proposta di Ceronetti non è nuova, ma raramente – mi pare – è stata presa sul serio: istituire un servizio civile obbliglatorio per maschi e femmine, italiani d’origine o acquisiti, da svolgersi tra i 18 e i 20 anni.

“Voglio accennare al mai disoccupato problema della disoccupazione giovanile, stufo di sentirne trattare con adulazione oscurante e retoricaccia di finta compassione, lontano da ogni buon senso. Perché questo ho veduto. La fine della dannatissima naja (il servizio militare costituzionalmente obbligatorio) ha nociuto ai giovani maschi italiani. L’esercito ridotto e a base volontaria era la soluzione più giusta e razionale: ma tra i diciotto e i venti anni per innumerevoli altri si è aperto uno sbadiglio di noia, frustrazione, poltroneria, caccia nevrotica del posto sfruttata per fini di potere da falsi amici avidi di consenso facile, di voto futuro. La mia proposta di utopistico bene sociale è di istituire un servizio civile ovviamente disarmato per tutti i giovani, uomini e donne di diciotto-diciannove e vent’ anni, della durata di un anno e mezzo, fatto di servizi utili alla collettività, apprendimento di mestieri, studio, giochi, sport, teatro, pronto impiego nelle calamità. I figli degli immigrati con cittadinanza italiana ne farebbero parte alla pari e insieme con tutti gli altri”.

Non so se nelle cose accade davvero che ci si lanci, terminata la secondaria di secondo grado, alla ricerca del posto. Temo che un certo numero di ragazzi intercetti piuttosto le altre possibilità evocate: noia, frustrazione, poltroneria. Confezionate talvolta con l’abito rispettabile di un corso universitario.
Ma la statistica non è il cuore della questione. Quel che Ceronetti evoca è la deificazione del “mercato del lavoro”, quale unico orizzonte di senso possibile. Certo: lavorare bisogna, e persino lavorare è bello, ancorché stanchi. Ma la logica del mercato applicata a tutto (lo spot della “MasterCard” sembra innocuo, ma rivela la potenza che il denaro possiede di divenire metro di giudizio del cosmo), svuota il significato del lavoro come veicolo di creatività trasformativa della terra, perché il lavoro diviene mezzo per il denaro, cioè per l’acquisto, e quindi la risoluzione di bisogni (più o meno indotti).

Ceronetti, correttamente – ma ben lungi dall’accarezzare il cosiddetto politically correct, elegante maniera per dire che rinunciamo a scannarci dicendo come le cose stanno perché gli interessi comuni alle due parti sono più invitanti – denuncia sin dalle prime righe il posto che si è preso e che non gli verrà tolto,

l’idea che, lavorando nella parola, piegando a dare musica il ferro del verbo poetico, dispiegando ai crocicchi e sulle piazze filosofia etica, fumata fino all’intossicazione con la pipa del povero giudeo portoghese Baruch Spinoza – si potrebbe produrre il miracolo di una particella minima di bene sociale, in cui fermentassero germi di salvezza universale”.

Delinea da subito il manifesto dell’inutilità, proprio di poesia e filosofia. O meglio, dell’apparente inservibilità, in quanto incommerciabilità, di esse. Espulse loro, come Spinoza dalle chiese-sinagoghe-congregazioni di mezz’Europa, però, espelleremo anche la sana capacità di attendere, lavoro o amore non importa, la possbilità di non divorare il mondo, e quindi noi stessi, gli uni gli altri.
Ecco che l’azione civile di un servizio annuale dedicato ad altri avrebbe la funzione di antidoto alla corsa insensata: una sorta di poesia delle mani, di filosofia delle relazioni, per imparare ad aspettare.

(QUI, l’articolo completo)

Mettere in casa; mettere al mondo

Antonio Polito scrive sul Corriere un pezzo interessante, che dovrebbe destare un certo dibattito.
In sostanza il giornalista porta all’attenzione di tutti una riflessione pungente sul rapporto genitori/figli nell’Italia contemporanea; e per farci comprendere come la situazione dei figli non sia poi così scomoda, elenca una serie di pretese, o di diritti, di cui essi possono godere.

Secondo Il Post, Polito assume alcuni toni paternalistici, pur accusando i genitori proprio di paternalismo.

Ora, se paternalismo è l’atteggiamento di un governo, e quindi mutatis mutandis di un genitore, che protegge i propri cittadini/figli e nello stesso tempo non nutre alcune fiducia nella loro autonomia, è per me importante chiedersi non solo, e forse non tanto, come uscirne, se questa domanda prevede un giudizio senza appello sui genitori stessi, quanto il perché si sia diffuso questo atteggiamento medesimo.

Perché se è vero – e lo dico da insegnante e da persona che frequenta le giovani generazioni al di là dello spritz serale – che è sconsolante osservare come molti ragazzi appaiano collocare se stessi in una posizione di attesa passiva della propria realizzazione, quasi che essa debba “capitare” come una ventura, un caso, una combinazione di coincidenze fortunate, è altrettanto vero che – nella logica mediatica – chi tra di essi prova ad affrontare la complessità di questo mondo, sopportandone le contraddizioni, non riceve alcuna visibilità. Non ottiene cioè né riconoscimento economico, né riconoscimento tout court. Lo sguardo sui figli è insomma confinato in due macro-atteggiamenti, per lo più: il giudizio, alla Polito, per cui “dovresti darti da fare e non lamentarti tanto” oppure la super protezione dei «genitori-orsetto», contro cui scrive Polito stesso, che pretendono di salvare la propria prole da questo mondo brutto e cattivo.

Il sottrarsi al confronto con la realtà non dipende solo dalla campana di vetro costruita attorno al pargolo. Dipende nella stessa misura e con la stessa forza dall’invito a darsi da fare, perché esso contiene ugualmente un messaggio svalutativo. Questa sollecitazione si presenta come invito al confronto con i giovani di altri paesi, meno “mammoni” o “bamboccioni” e più pragmatici. E probabilmente questo contiene un elemento di verità. Ma è curioso che non si vadano a considerare, con la stessa intransigenza, le condizioni di vita delle società indicate come più virtuose. E’ interessante per esempio riflettere sul fatto che una legislazione apparentemente più protettiva, come quella che prevede in alcuni paesi nordici la paternità obbligatoria, si accompagni spesso alla presenza di giovani più intraprendenti.

Insomma, ritengo che i termini della questione non siano centrati. Non si tratta di invitare a “proteggere di meno”, perché l’alternativa a questo atteggiamento, e cioè il giudizio, è già presente e ugualmente infeconda. Penso si tratti di accompagnare all’autonomia. Da un lato assicurare una presenza, dall’altro mostrare con la propria esistenza quotidiana che il punto non è non avere problemi, ma saperli affrontare. Una questione di resilienza. E invece l’immagine minacciosa del futuro, dal quale vorremmo proteggere i figli o che invitiamo loro ad affrontare con i denti, è l’immagine della paura degli adulti medesimi. Che però non sanno di ospitare in sé, perché si ritengono forti e soddisfatti, e in diritto di educare gli altri, e non se stessi.

 

ancora nella notte, come gufi

Questi brani sono tratti dall’omelia di Enzo Bianchi, nella Liturgia della Notte di Natale, a Bose.

Ma c’è soprattutto un’altra ragione per il nostro vegliare nella notte: nella notte noi cantiamo il nostro desiderio della luce. Vivere la liturgia nella notte è fare una battaglia contro la tenebra. Noi affermiamo che crediamo al giorno, che crediamo al nuovo Sole che spunta dall’alto, alla Luce radiosa senza tramonto, alla Stella del mattino. Non a caso tutti i nomi dati a Cristo dai profeti e dalla chiesa nascente evocano la luce. Noi uomini in realtà siamo tutti cercatori di luce, siamo tutti dei ciechi che abbiamo bisogno della luce, siamo creature sempre avvolte nelle tenebre. E anzi, più camminiamo verso la luce, più ci rendiamo conto delle tenebre che ci avvolgono (…).

Quel bambino non poteva parlare, non poteva imporre nulla, non poteva imporsi. Questo è il mistero vero del Natale che sta davanti a noi. E il cristianesimo è proprio la religione che, a differenza di tutte le altre, ci dice che un uomo, nient’altro che un uomo, deve essere da noi colto come un figlio di Dio, come una parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). E un uomo è sempre qualcuno che attende la nostra presenza, il nostro sguardo come dono. Noi questa sera dovremmo sentire quella voce che ci ha accompagnato lungo tutto l’Avvento e che ci accompagnerà anche nel tempo di Natale: «Io sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre, io starò con lui e lui con me» (cf. Ap 3,20). Chi lo dice? Chi è colui che dice di stare alla porta? È il bambino di Betlemme? È il Gesù che passava sulle strade di Galilea? È il Signore veniente nella gloria? Sì, ma perché noi riconosciamo il bambino di Betlemme, il Gesù che passa sulle strade di Galilea, il Veniente nella gloria in quanto vivo e risorto, dobbiamo ancora e sempre guardare semplicemente un volto, un uomo che sta davanti a noi. Il Natale ci chiede questo”.

la società della prestazione

A ben vedere, il semplice fatto di scrivere un post in un blog è allineato alla logica della prestazione: se scrivo è per render pubblico un pensiero, così che qualcuno legga e si ponga in accordo, in disaccordo o faccia i suoi distinguo. Ma, a parziale discolpa, i miei lettori sono meno di quelli manzoniani. Quindi in pratica scrivo per me.

Sempre qualora si debba rilevare una colpa, un’accusa del tipo: anche tu desideri apparire. Ebbene, sì. Ma non è una colpa: sto al mondo e obbedisco al mondo finché esso non mi costringa ad andare contro me stesso.

Chiamo logica della prestazione una delle possibili linee di forza con cui cercare di spiegare quanto ci circonda. Non ha la pretesa di dire la realtà, ma di offrirne una griglia interpretativa. Giudizio riflettente, lo chiamerebbe Kant. Secondo la LdP, ciascuno di noi è invitato ad agire non con l’obiettivo dell’azione stessa, ma con l’obiettivo di essere giudicato “a posto”, accettabile, degno di riconoscimento e di fiducia. L’obiettivo dell’azione non è realizzare quanto l’azione prevede, i mezzi migliori per un dato fine, ma è spostato: si punta qui, per ottenere un là. Per esempio potrei scrivere questo post non perché ne ho bisogno, o perché voglio gettar luce su un mio garbuglio mentale, ma perché così posso venir letto, commentato. Visto. Per esempio studio non per apprendere, ma per evitare un brutto voto. Gioco a calcio non per la mia passione per questo sport, ma perché così sarò preso in considerazione per una squadra più quotata. Lavoro non per trasformare la natura (sia essa materiale come spirituale) ma per conservare il mio posto, per soddisfare un capo, per pagarmi le rate dell’auto, per mantere alto il livello della qualità materiale di vita.

Il soggetto così non è il portatore dei mezzi verso un fine, e non è nemmeno – secondo il paradigma classico, l’attore della propria realizzazione. Il soggetto agisce per essere oggetto – visto, letto, guardato, riconosciuto o solo accettato. In questo il soggetto/oggetto mette la propria realizzazione. Non mi importa se quanto scrivo è logicamente argomentato, o concerne quanto più possibile la verità dei fatti: scrivo perchè di me si parli. Studio per evitare l’ansia del brutto voto, che genera delusioni in famiglia: quindi se questo è l’obiettivo, non mi interessa che l’azione dello studiare obbedisca a se stessa, perché possono esserci altri mezzi per evitare quell’ansia. Gioco a calcio per arrivare “in alto”, ma se posso arrivarci tramite una “spintarella” il gioco, letteralmente, è fatto. Per conservare il mio posto di lavoro posso anche reperire delle scorciatoie; per soddisfare un capo posso leccargli il sedere; per guadagnare di più posso cercare espedienti sotterranei o anche illegali. Di quel che è lo scrivere, lo studiare, il giocare, il lavorare – in sé – in fondo non mi dò pensiero.

Mi si obietterà che io sottointendo il fatto che ciascuna di queste azioni abbia una propria natura, alla quale posso obbedire o, nella LdP, non farlo. E mi si chiederà di dimostrare questa presunta essenza. Rispondo che non intendo affermare che esista il “lavoro in sé”, ma che esiste qualcosa che riconosciamo collettivamente come lavoro. E questo dovrebbe avere a che fare con una passione, una serie di competenze, un problema da risolvere e la scelta dei mezzi più efficaci per farlo. E così per le altre azioni. Nulla di assoluto, ma solo il tentativo di obbedire al mondo come lo abbiamo costruito e al linguaggio che usiamo per dirlo.

L’elemento deteriore in tutto questo, è che la LdP agisce in maniera carsica. Cioè siamo convinti ad accettare questo tipo di logica come quella ovvia, naturale. Qui sta l’abisso, il fatto cioè che sia la paura il movente ultimo. Se non sei così, sei fuori. La LdP diventa drammatica quando non è oggetto di scelta, di riflessione, di deliberazione. Perché in questa maniera non saremo mai portati a confrontarci con la responsabilità della nostra azione. «Non sono cattiva, è che mi disegnano così» diceva un cartone animato.

Expedit#1

Dò il via ad una “nuova rubrica”, il cui titolo richiama per converso l’ingiunzione di Pio IX ai cattolici nel 1868. Intendo provare a seguire la vicenda riassumibile dal binomio/slogan “cattolici e politica”. Benché già solo questo abbinamento risulti noioso… Ma non so come altrimenti farvi riferimento.

Primo contributo, il “manifesto” di quattro vecchiardi del marxismo italiano. In concerto con BXVI. Ma non pensiate si tratti di cattocomunismo banale.