Difendere la filosofia? La filosofia è una malattia mortale

L’articolo di Alberto Gaiani su Alfabeta ha il merito di raccogliere i contributi al tema in oggetto e nel contempo di superarne la parzialità, convogliandoli in alcune proposte per rilanciare il dibattito.

Su queste pagine notturne mi permetto quindi di obbedire e di contribuire con un frammento, partendo da quattro citazioni di varia natura:

«La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso a essere a casa propria ovunque»
Novalis, Schriften

… Lei mi domandò cosa si fa quando si è studiato da filosofia, e io le dissi che si prende la laura. Lei voleva sapere che mestiere si fa, e io dissi che volendo si può insegnare filosofia agli altri, ma di solito quelli che la sanno non la insegnano, mentre quelli che la insegnano non la sanno.
“E cosa fanno allora quelli che la sanno?”
“Se la tengono a mente,” dissi.
“E poi?”
“E poi pensano, e tutto quello che pensano è filosofia.”
“E poi?”
“E poi muoiono.”
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1998

Quali radici hanno in noi pensiero e poesia? Per il momento, più che cercare la loro definizione, ci interessa la necessità, l’estrema necessità, che le due forme della parola possono colmare. Qual è l’indigenza d’amore alla quale mettono riparo?
Maria Zambrano, Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendagron, Bologna 1998

«Caspita Socrate – dice l’amico Simmia con il sorriso sulle labbra – non avevo alcuna voglia di ridere, ma tu adesso mi hai proprio fatto sorridere! Infatti credo che la maggior parte della gente, sentendo queste parole nei confronti dei filosofi, le considererebbero ben dette. Del resto, anche i nostri concittadini sarebbero completamente d’accordo nel sostenere che quelli che fanno filosofia sono proprio dei moribondi e, anzi, vi aggiungerebbero di non ignorare affatto che essi sono meritevoli di subire questo destino»
(…) «Allora Socrate – disse l’amico Cebete sorridendo – prova  a convincerci come se avessimo effettivamente paura, e anzi, come non fossimo noi ad aver paura, ma piuttosto quasi vi fosse un bambino terrorizzato da queste cose. Cerca di dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio». «Ma questo bambino, rispose Socrate, bisogna incantarlo ogni giorno, finché non siate riusciti ad ammansirlo del tutto»
Platone, Fedone 64b e 77 c

Per difendere la filosofia, le varie voci che compongono il dialogo aereo su cui Alberto Gaiani fa il punto, ci si richiama soprattutto a quanto la filosofia stessa PUO’ FARE, al suo POTERE, inteso in senso stretto, proprio come “poter fare”:

– poter contenere anche sistemi opposti, perché le nostre idee non sono definitive (Reale)

– il respiro della mente (Giorello)

– una messa in ordine delle idee sulla vita e su noi stessi (Vattimo)

– esprimere, nella relazione drammatica tra origine e compimento, il principio stesso del politico (Galli Della Loggia/Esposito/Asor Rosa, sul sapere umanistico in generale)

– definisce le loro differenze, misura la tensione che passa tra i vari linguaggi; La capacità, e anche il desiderio, di aprire un confronto, in qualche caso uno scontro, rispetto a ciò che esiste a favore di una diversa disposizione delle cose.  (Esposito)

– un’insuperata capacità di fare un passo indietro rispetto al piano dal quale di solito guardiamo la realtà e concederci così una visuale più ampia sulle cose (Quit The Doner)

– critica delle diverse forme di presupposizione assunte come scontate, come capacità di mettere in questione tutte quelle parole che spesso il discorso pubblico assume come non necessitanti di discussione alcuna, come possibilità, attraverso l’argomentazione, di decostruire le pratiche discorsive che si fondano sull’autorità della persuasione e, dunque, del potere (Illetterati)

Tutto quanto riportato è l’importantissima eredità dei nostri padri-nel-pensiero, la Carta Costituzionale della nostra Repubblica degli Spiriti, quanto ha reso possibile in ogni epoca del nostro decadente occidente (ma al dibattito manca una voce orientale, per ora) la camusiana rivolta contro chi, in nome di presunte Verità, schiaccia, zittisce, impoverisce, chiunque altro.
La filosofia è strumento degli scomodi, degli insoddisfatti, delle minoranze, dei ghetti.

Ma perché lo è? Perché la filosofia è una malattia. O meglio, è la consapevolezza di essere malati.
Chi fa filosofia – o ci prova – davvero, in fondo, è consapevole che non può non farlo; è cosciente che la sua curiosità, il cercare di riempire i buchi nella realtà che osserva, nasce fondamentalmente da un essere disadattato – dal non adattarsi alla normalità, da non essere capace di adattarsi.

La “nostalgia” di Novalis, Heimweh, era al tempo classificata come una vera e propria patologia della mente. Collegarla al filosofo, significa ricordarci come egli, nel pensare, cerchi di curare questa sua radicale mancanza del “tutto” (l’essere a casa ovunque), cerchi la cura per dare ordine non solo ad un pezzetto della realtà, ma al suo senso complessivo. Ma non può non farlo, come il malato non può allontanare da sé questa condizione di bisogno.
Una sorta di condizione a cui non si riesce a rinunciare, questa.
Talvolta capita, in classe, che emerga nei ragazzi messi di fronte alla storia della filosofia, questo pensiero: ma non sarebbe più facile non farsi tutte queste storie (per essere eleganti) mentali? Eh, già: come fanno loro, la maggior parte degli altri uomini e donne, a vivere senza pensieri? Non sarebbe meglio, più facile?
Viene in mente Montale:

Ah l’uomo che se ne va sicuro
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Meneghello è sottile come sempre e ci suggerisce che la filosofia non è una professione, ma una condizione permanente. Come una malattia incurabile, che la Zambrano (e, a margine, perché così poche filosofe nei nostri programmi?) individua in una radicale mancanza di amore, o più precisamente: la filosofia (e la poesia) cercano in tutti i modi di metterci al riparo dalla nostra condizione limitata umana, dall’esser-esposti.
Deboli, vulnerabili.

Ma pensiamoci: i ragazzi a scuola, messi in questa condizione, riconoscono di essere portatori sani di questo virus, che si dibatte, fa venire la febbre, di fronte – su tutti – a due temi radicali: l’amore e la morte. Come fai a starci dentro (a star di fronte alla persona che ti ha scelto o al fatto che qualcuno se ne è andato) senza farti una domanda?
Se tu, adulto o ragazzo, non hai lo spazio per fartela, se non c’è un luogo per un tragico “perché?”, significa che la tua testa e il tuo cuore sono strapieni di cose. Che sei caduto nella trappola di chi ti ha venduto un bel po’ di risposte, di chi ti ha soddisfatto.
Possibile che il nostro ruolo di umani sia solo quello di compilare questionari di soddisfazione del servizio?

Ma il punto è che da sempre qualcuno cerca di venderci risposte, proprio perché è radicale il bisogno di risposta. Erano (sono) i sofisti, i mercanti, i capitalisti, perfino coloro che – stabilita Una Filosofia – ci campavano e ci campano sopra.
E se oggi c’è un sistema – chiamiamolo mercato, chiamiamola tecnoscienza coniugata con il mercato – che non solo fornisce ottime soluzioni, ma crea bisogni considerati essenziali per poi venderci altre soluzioni… Se in altri termini siamo costretti ad esser sempre sani pronti e competenti, è chiaro che sarà fatto di tutto per espellere la malattia, il bisogno, la vulnerabilità propri di chi non riesce ad adattarsi.

L’espulsione della filosofia, ma anche della musica e della storia dell’arte, sono fisiologiche in questo sistema della prestazione. Non c’è tempo da perdere, se devi produrre e poi comperare. Siamo sempre in tempo di saldi ed è saggio affrettarsi.

Eppure questo bisogno di trovare una risposta, che giace all’origine anche delle varie Risposte, non è sinonimo di forza, ma di spaesatezza, di fragilità. Che tuttavia è la stessa che, dal tornitore al fisico, dal ricercatore biologo al direttore d’orchestra (direbbe Sennett), pone l’essere umano di fronte alla meravigliosa necessità di risolvere un problema. Mi pongo di fronte ad un’attività, rilevo che qualcosa non funziona, potrebbe andare meglio, e cerco finché non trovo il pezzetto che manca. E’ la stessa spinta che muove un bimbo in un gioco e un filosofo teoretico: trovare ciò che manca.
Ma è un bisogno, non una potenza!

Ecco perché, a mio avviso, la filosofia – come presa in cura della nostra fragilità – andrebbe sparsa in ogni ordine e grado di scuola, con linguaggi diversi, con pratiche da pensare, e non solo come comunicazione della storia della filosofia.
Ecco perché questa domanda sulla filosofia porta con sè anche la domanda sulla scuola in generale, come bene evidenzia Illetterati.
Per quale motivo, in fondo, Socrate pensa ai giovani, quando lancia il suo vaticinio alla città di Atene? Molti seguiranno le sue orme di tafano e saranno più fastidiosi quanto più saranno giovani – egli dice. Ma perché, i giovani?
Perché, penso, sono coloro che, essendo più lontani dalla morte, si permettono di pensarci, spesso perfino di giocarci con leggerezza. Accettano il fatto che ci si debba pensare, anche se non si vorrebbe. Perché essi sono coloro che non sono stati ancora convinti/persuasi da una delle tante Risposte, che immagano e spingono altrove il pensiero che siamo e potremmo non essere.

A conti fatti, nell’ascoltare il canto notturno di una civetta, emergono due tipologie umane: chi ascolta affascinato e chi si produce in gesti apotropaici.

Quasi una dichiarazione

0_eb441_fbef353d_origS’incontrano, anche nelle pieghe della Rete, le persone illuminate.
La loro luminescenza traspare dalle parole, quando raccontano la vita e la Storia.
Grazie ad Ornella, per questa sua dichiarazione.

 

Amo le svolte, spio le trasformazioni. Le vedo nella mia vita, imparo a riconoscerle intorno. Ho scoperto di essere “un soggetto” che all’improvviso si scopre “processo”,
come dice F. Jullien ( le trasformazioni silenziose).
Penso che oggi sia importante per tutti scrutare le trasformazioni:
in ogni campo e ad ogni livello. Per non cedere allo scetticismo,
non cadere nel disfattismo; ma anche per non irrigidirci dentro a schemi superati,
disegni già da tempo insufficienti a spiegare il mondo.

Architetto, ex insegnante di Arte, praticante di calligrafia cinese da nove anni (ci tengo),
ho la stessa età di Erri De Luca.
Sono nata lo stesso giorno di un ragazzo della primavera di Praga
morto in piazza san Venceslao.
In terza media ho fatto il tema sulla morte d Kennedy.
Alle elementari avevo fatto il dettato sulla morte di Arturo Toscanini.
Ero sveglia la notte dell’uomo sulla luna
A piazza Fontana ero passata qualche ora prima.
Ero incinta quando hanno ucciso Aldo Moro.
In via Fani, in via d’Amelio e a Capaci ci abbiamo portato i figli, perché sapessero.
Ho amato il greco, sognavo in latino
Ho creduto che l’architettura poteva salvare il mondo
Bauhaus e Le Corbusier
Stavo per andare a vivere in una comunità senza futuro.
Mi ha salvata Martini.
Ho creduto alle utopie. Alle Grandi Verità.
insieme alle utopie mi sono sentita crollare, mattone dopo mattone.
per anni.

Nel naufragio,
Impreviste zattere di salvataggio e stelle polari.
un giorno ne farò l’elenco ragionato.

Benedetto il naufragio
E le zattere
E le stelle.

Ho cambiato parole.
Ho perso: certezza, verità, assoluto, per sempre, universale, …
Ho guadagnato: fessure, tracce, contaminazioni, intrecci, forse, adesso.
Ho reinterpretato: bellezza, passione, responsabilità , onestà, libertà, …

Le cose adesso stanno così:
In pensione, come anche Federico, mio marito.
Nonni part time.
Nell’intreccio dei giorni, finalmente, un poco
anche il lusso di fare quello che ti sembra bene e che sai fare: ascoltare, appassionarti delle voci diverse (come accade nei viaggi), inventare intrecci, cogliere assonanze,
tentare collegamenti, aprire fessure.
Fidarsi dell’inutile (non come futilità‘, ma come gratuità),
coltivare bellezza (non come decorazione e abbellimento, ma come gesto, segno, visione, che rivela e convince). Appassiona.

“Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno sa l’utilità dell’inutile.” (Zhuang-zi)

Parola del giorno:
Fare bellezza è un compito politico.
Uscire dal vortice del negativo, dal disfattismo

Sto studiando la calligrafia cinese e la cultura orientale,
conquistata dalla dimensione etica dell’arte e del pensiero là, a oriente.
E’ ricerca, è purificazione, è consapevolezza.
Ciò mi rende più agile e leggera nel cercare di creare cose (arte?) dove non c’è chi produce e chi fruisce, o compra, ma dove si offrono occasioni per creare insieme, per cucire e sovrapporre, annodare, allacciare , intravedere, socchiudere.

Talvolta incontro compagni di viaggio.

Un attimo solo

attimoDP

La Diocesi di Padova propone anche per questo periodo quaresimale un tempo minimo giornaliero dedicato alla lettura dei testi evangelici. L’iniziativa non ha come obiettivo quello di fare vedere “quanto la Chiesa possa essere moderna e attraente”, ma semplicemente quello di impiegare i media di massa – newsletter, sms – per ricavare uno spunto di riflessione, uno spazio aperto per la testa e il cuore. Ogni giorno viene postato il brano previsto dalla Liturgia, associato ad un commento esperienziale o di approfondimento biblico. Sono scritti da gente (l’ho vista) normale (per esempio, io, per i giorni 11-15 marzo). Mi piacerebbe ricevere qualche feedback.

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Compito di filosofia

Il discepolo è l’occasione perché il maestro comprenda se stesso e viceversa il maestro è l’occasione perché il discepolo comprenda se stesso. Il maestro alla morte non lascia dietro a sé nessuna esigenza nell’anima del discepolo, precisamente come (e tanto meno) il discepolo non può pretendere che il maestro gli sia debitore di qualcosa… Perché intende meglio Socrate solo colui che intende di non dovere nulla a Socrate, cosa che Socrate preferisce e che è bello aver potuto volere.
S. Kierkegaard, Briciole filosofiche

Ricordo di Carlo Mazzacurati

Penso che poche cose come le interviste della serie Ritratti, con Marco Paolini, riescano a suggerire lo sguardo e la cura di questo regista. La sua capacità di non abbandonare noi veneti a noi stessi, alla nostra antica miseria contadina o alla pretenziosa ottusa operosità dell’ormai immobile “locomotiva”. Siamo lavoratori, ma con le mani e con lo spirito. Grazie, di cuore.

Alameda

Ha più di 5 milioni di abitanti, non so quanti milioni di automobili, e quanti miliardi di claxon e sirene e tubi di scappamento. Ci sono cani randagi dappertutto e anche persone randagie, che vivono per strada, dormono per strada, a volte bevono fino a stramazzare al suolo, altre volte evidentemente non hanno sete e restano lì, a chiedere l’elemosina, a guardare la gente che passa, o a dormire, in maniera più o meno strutturata, a lato della strada. La città è tagliata in due dalla “alameda”, che in realtà si chiama Avenida Libertador General Bernardo O’Higgins, e non so se è più lungo il nome o la strada stessa. Che è anche larga, otto o nove corsie, perchè una corsia mi sa che è per gli autobus, ma solo in un senso di marcia, chissà perchè. Un pezzo della alameda lo percorro tutti i giorni a piedi per andare al lavoro, e ogni giorno è un film, perchè non c’è solo il traffico delle auto, il più banale, ma c’è anche quello pedonale, con fiumi di gente che cammina nei due sensi, ma così tanta che a volte mi trovo bloccata e non riesco neanche a superare chi va più piano perchè sta scrivendo al cellulare, perchè è su una sedia a rotelle, o perché semplicemente non ha fretta (non che io ne abbia, peraltro). E poi è tutto un festival di economia informale, ossia di gente che per strada vende qualsiasi cosa, dall’accendino, all’abbigliamento, all’attrezzo per scavare le zucchine a quello per sturare il lavandino. E ogni giorno è diverso, così che non c’è da annoiarsi, ma anzi si scopre sempre qualcosa, e ogni tanto ti compri una spremuta d’arancia per il viaggio, o qualche cosa che puoi evitare di comprare al supermercato e lo compri direttamente sulla Alameda. Mitica Alameda, che devi imparare dove la puoi attraversare, perché non è che puoi attraversarla dove ti pare e a volte, se ancora non sai bene, ti tocca fare dei giri assurdi prima di trovare l’agognato passaggio pedonale. I cani randagi sono intelligenti, e hanno capito come si fa, ed è incredibile vederli che aspettano il semaforo verde prima di farsi traascinare dall’onda umana che li porta al di là della strada.

Continua a leggere il report, di Michela Giovannini, da Santiago del Cile QUI.

In ricordo di Alan M. Turing

Chiese il necessario per scrivere. Glielo portarono subito. Forse non era quella la carta che avrebbe voluto avere: i fogli non avevano intestazioni di sorta – e questo andava bene – ma era troppo ruvida al tatto e granulosa. Anche la penna poi, vecchia stilografica recuperata chissà dove, non era proprio ciò che desiderava.
Suonò ancora. Abituato da vent’anni ad avere come esclusivi strumenti di lavoro una risma di carta quadrettata e un mazzetto di matite ben appuntite, rinunciava malvolentieri a queste abitudini, ovunque gli capitasse di mettersi a lavorare.
Finalmente gli fecero avere la matita: una matita sola, ma nuova e ben temperata. Mancava, tuttavia, il temperino. Solo avendolo a portata di mano la scrittura avrebbe potuto prender corso senza limite alcuno e, le rotture della mina, o il suo progressivo spuntarsi, non sarebbero diventate interruzioni poste al fluire dei pensieri.
Ma, più piacevolmente, si sarebbero trasformate in soste durante le quali sarebbero state le mani e le dita – impegnate nel gesto di infilare, sostenere, ruotare e raccogliere – a mimare o scolpire, in una sorta di aerea scultura, le volute che il pensiero inanellava.
Cercò di dimenticare un vecchio calendario, fermo al dicembre dell’anno precedente, appeso alla parete, sopra la semplice scrivania di metallo verde.

Questo l’incipit del ricordo di Alan Mathison Turing, scritto QUI da Giorgio Boatti.

Lavorare stanca? Le iscrizioni sono ancora aperte.

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Quest’anno riparte la SCUOLA DEL LEGAME SOCIALE. E’ il terzo biennio: dopo il primo, che è stato dedicato all’esplorazione delle tematiche trasversali legate al legame, e il secondo, centrato sull’economia, questa volta parleremo del LAVORO e delle sue letture in ordine al legame sociale stesso.
Il corso è partito, ma le iscrizioni sono ancora aperte, per poter rinforzare il gruppo.

Questo il link per scaricare il calendario.

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Il titolo è suggestivo e provocatorio: LAVORARE STANCA? Qualche volta stanca cercare il lavoro o solo… pensare al senso del lavoro che ci circonda, oggi. Ma questo senso è cambiato nel tempo? I nostri nonni lo pensavano diversamente? E le nostre nonne?

aperte(…)Non è certo attendendo nella piazza deserta

che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade

si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,

anche andando per strada, la casa sarebbe

dove c’è quella donna e varrebbe la pena.

Nella notte la piazza ritorna deserta

e quest’uomo, che passa, non vede le case

tra le inutili luci, non leva più gli occhi:

sente solo il selciato, che han fatto altri uomini

dalle mani indurite, come sono le sue.

Non è giusto restare sulla piazza deserta.

Ci sarà certamente quella donna per strada

che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

Cesare Pavese, Lavorare stanca (1943)

“Lavorare stanca” mi è sempre parso il detto di uno che non se ne intendeva molto. Del lavoro duro, che richiede vera fatica, sembra assurdo, vagamente blasfemo, dire che “stanca”. In officina da noi, una delle componenti essenziali del lavoro era la forza che ci voleva, alzare i monoblocchi, sollevare enormi pesi con le argane, installare nelle loro sedi i magici alberi a gomito dei cami, o i potenti differenziali.
L’orrore per le morti di mio padre o dei miei zii, o anche di Toni dalle Case o di Bepeto Vecia (mai avvenute per fortuna), urtati dalle oscillazioni di quelle mostruose masse appese a una catena, o maciullati sotto orrendi blocchi di metallo sfuggiti ai ganci, sconvolgeva in brevi lampi le mie notti e qualche volta di straforo le ore del giorno. Era così il lavoro, duro e pericoloso, ma non stancava.
Luigi Meneghello, Le carte (1999) p. 396 (pensiero datato 1968)

Metti a Venezia, l’8 di Novembre

Insieme all’aggiornamento dell’immagine della testata (grazie a Sara, da QUI), segnalo due appuntamenti nella città lagunare, il secondo e più tardivo dei quali mi vede come collaboratore. Che cosa li accomuna, a parte il giorno? La creatività.
Alle 17 si inaugura una mostra su Bohumil Hrabal, grande scrittore boemo (clicca sulla foto). Dalle 19,30, a Metricubi, riparte M’Interest (clicca sul poster by StufioFludd).

hrabalSono un estimatore del sole nei ristoranti all’aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell’eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis… (QUI il testo completo)

 

 

Essere artigiano, qualunque lavoro si faccia, vuol dire minterest2_spensare a quanto puoi crescere migliorando le tue abilità, ed avere tutto il tempo che serve per riuscirci. Questo non dipende solo dalla motivazione, che è importante ma non sufficiente, ma dal contesto organizzativo, che deve essere favorevole e valorizzare le persone, investendo su di loro a lungo termine. Invece nelle aziende il focus è brevissimo. Il modello artigiano del passato ci insegna una cosa importante: il senso del tempo. Per diventare maestri ai tempi antichi ci volevano anni. (da un’INTERVISTA a Richard Sennett)