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Il progresso ha sempre ragione
La Zuppa del demonio, da un’espressione di Dino Buzzati, è un film/documentario di Davide Ferrario presentato fuori concorso a “Venezia71”. L’amico che me lo ha consigliato, mi ha anche suggerito l’utilità della visione per le classi quinte. E in effetti sono uscito con la sensazione di aver avuto, per settantacinque minuti circa, l’Italia negli occhi. Un’Italia che può essere – penso – solo raccontata, e non più vissuta: non solo perché passata (la narrazione, realizzata con centinaia di contributi video e montata stupendamente, va dal 1911 circa alla crisi petrolifera del 1973), ma perché forse quel tipo di lavoro, e la narrazione di quel lavoro (anch’essa lavoro, sebben su di un altro piano) non ci sono più.
Le immagini hanno un duplice commento: la musica, splendida, di Fabio Boravero e molti brani (Marinetti, Meneghello, Rea, Bocca, Parise, Sciascia, Buzzati e altri). Quindi c’è il lavoro – il progresso DEL e NEL lavoro – che trasforma la terra, le mani, gli animi, le città e la riflessione intellettuale SUL lavoro/progresso. Come la colonna sonora, generata dalle immagini e mai violenta su di esse, anche le parole suonano rispettose: gente che lavorava pensando e scrivendo, ma senza ammiccare – come chi non si sporca le mani col grasso ma che insomma siamo tutti compagni. Mi viene in mente (appunto) Meneghello, che commenta il lavorare stanca di Pavese:
«”Lavorare stanca” mi è sempre parso il detto di uno che non se ne intendeva molto. Del lavoro duro, che richiede vera fatica, sembra assurdo, vagamente blasfemo, dire che “stanca”. In officina da noi, una delle componenti essenziali del lavoro era la forza che ci voleva, alzare i monoblocchi, sollevare enormi pesi con le argane, installare nelle loro sedi i magici alberi a gomito dei cami, o i potenti differenziali.
L’orrore per le morti di mio padre o dei miei zii, o anche di Toni dalle Case o di Bepeto Vecia (mai avvenute per fortuna), urtati dalle oscillazioni di quelle mostruose masse appese a una catena, o maciullati sotto orrendi blocchi di metallo sfuggiti ai ganci, sconvolgeva in brevi lampi le mie notti e qualche volta di straforo le ore del giorno. Era così il lavoro, duro e pericoloso, ma non stancava».
Luigi Meneghello, Le carte (1999) p. 396 (pensiero datato 1968)
Non ho idea di un lavoro che stanchi, davvero, fisicamente – e che forse mi farebbe bene, almeno all’inizio. Ma il documentario mi ha suggerito la fede nella possibilità di costruire qualcosa, ognuno come può e come vuole/riesce – mani o penna che sia. C’è stata un’epoca in cui era possibile credere nel lavoro collettivo, volto a costruire una casa comune, come nell’utopia realizzata (secondo la dizione di Desroche e Draperi) di Olivetti.
Questa “ragionevole speranza” non è più immaginabile? Ci rimane solo di giacere nel maldipancia della flessibilità ? Il verme del neoliberismo è insinuato così a fondo che ci costringe solo a cercare il minimo per salvare il mutuo e la casa? Forse – anche qui – bisogna parlarne, bisogna guardare insieme – lavoratori e studenti, manovali e studiosi – queste immagini e ritrovare un alfabeto comune.
LÃ dove osano le colombe
Mendicanti preti politici
«La vera carità cristiana si fa aiutando realmente, fattivamente, quotidianamente le persone in difficoltà , come fanno i nostri servizi sociali, e non permettendo loro di vivere di questue, talvolta forzose, di espedienti ai margini della società e della legalità ».
A prima vista possono passare per parole di buon senso. Le ha vergate Massimo Bitonci rivolgendosi ai frati di sant’Antonio in una puntata della quotidiana polemica sulle politiche sull’accattonaggio (che preferiamo trattare come diversi punti di vista sulla questione della povertà ) . A prima vista dicevamo, perché l’affermazione solleva alcune questioni non banali. LEGGI IL SEGUITO
Gianni Belloni, su questioni apparentemente locali e ipocritamente “di ordine pubblico”.
Su tutto
sempre
Campolongo di giustizia sociale
L’associazione Principiattivi, con il MoVI e Libera sono accampati nelle terre già della Mafia del Brenta, per l’edizione 2014 del campo.
Un genitore non sa
Nessun genitore deve volere il meglio per suo figlio. E sai perché? Perché non lo sa. Un genitore non sa cos’è il meglio per suo figlio. Non lo può sapere, come potrebbe? È Dio? Legge nella sfera di cristallo? No, è solo un genitore. E allora dovrebbe starsene a guardare e basta, in silenzio e con grande calma. Un po’ come si sta davanti al mare a guardare il mare. Cosa si fa davanti al mare? Si guarda il mare. Basta. Si accompagnano le onde con lo sguardo. Questo. Una per una. Come faceva il mio amico Malmecca con le foglie: le accompagnava, le prendeva in braccio un attimo prima che cadessero. Le… accompagnava. Hai presente? Le onde che si frangono, le foglie che cadono, la canna da pesca che si piega quando il pesce abbocca… Così. Accompagnare. Anche i figli bisogna accompagnarli. Stare a guardarli, come le onde. […] Un figlio che non continua il padre spezza una linea. La rompe. È un elemento di rottura, un figlio così, si può dire? L’ho pensato spesso. Ma adesso non lo penso più. […] Dovreste essere curiosi, voi genitori. Molto curiosi dei figli. Dovreste morire dalla curiosità di vedere dove diavolo andrà a finire, quella linea spezzata che è partita da voi, e che si spezzerà ancora decine di volte nei secoli, con i figli dei vostri figli e i figli dei loro figli. Decine di volte! Invece, siete sempre così scontenti… Così incontentabili. Siete così privi di curiosità , voi genitori… Sembra che conosciate già tutto, che sappiate al millesimo che fine farà ogni cosa, ogni figlio… Non vi lasciate sorprendere. Non prevedete neanche la possibilità di una sorpresa. Peccato. Vi private di una grande felicità … “.
Alla parola “genitori” potremmo – dovremmo – sostituire/affiancare “insegnanti”. Un appunto da ricordare, per me, in entrambi i casi.
Dove migrano i teenager in fuga da Facebook?
Dove migrano i teenager in fuga da Facebook?. Dall’aggiornata Wired.
«La cosa che più salta all’occhio di questi nuovi social network è il linguaggio basato fortemente su immagini, icone e parole chiave. Non è che il testo scritto sia bandito , ma la necessità della sintesi seleziona l’immagine come nuovo veicolo di comunicazione».