Parlare di Misericordia

  

Oragiovane ha un certo coraggio, perché mette le mani in pasta nell’ovvio sapendo che non è affatto tale. E l’ovvio, per molti di noi, è quella istituzione in crisi che è la parrocchia. Ovvio perché molti noi l’hanno relegata al proprio passato idealista e adolescenziale, fatto di “buone cose di pessimo gusto” abbondonate quando si è preteso di divenir grandi. Ovvio perché parlare di preti – non quelli degli scandali o quelli con i super appartamenti – pare noioso e sa di muffa. Eppure la parrocchia, se non si è corrotta dai se e dai ma, rimane uno dei pochi luoghi, come la scuola, in cui non ti scegli con chi stare. Potrebbe essere, e talvolta lo è, una palestra di diversità. Non è fatta per gente con la puzza sotto il naso, con o senza talare. E allora Oragiovane ci prova, a trasformare l’ovvio in conosciuto, e a strutturare un percorso serio, ma non serioso, per i GrEst. Sì, quella cosa con i bambini d’estate. Molti di noi non si rendono conto delle sue potenzialità finché non hanno figli in età scolare. Finché non si rendono conto che i luoghi di socializzazione non sono affatto scontati, né disponibili.

Il tema del 2016 è, in linea con la Chiesa, la Misericordia. E qui sta la sfida, perché non si tratta di UN tema, ma DEL tema. Oragiovane mi affida qualche riflessione, e io ci provo

Usare lo stesso linguaggio dei terroristi


La risposta al gesto violento e violentissimo – Parigi o Nigeria o- si situa sempre su di un piano simbolico. L’inno francese rimanda all’unità nazionale (tanto quanto un fascio repubblicano scolpito, tra le mani di una Marianne, essa stessa simbolo) e ai valori fondativi veicolati dalla Rivoluzione del 1789, più o meno depurati degli eccessi; il minuto di silenzio – o come si dice “di raccoglimento” – rimanda alla sospensione della vita nella sua fluidità feconda, imperterrita – almeno secondo le intenzioni del suo ideatore; la foto del profilo del social sostituita da una bandiera, o da un disegno: sono segnali di partecipazione, emotiva e intellettuale.
Istantanei, questi simboli rimangono nell’aria qualche istante, per poi venir sommersi dal calcio di inizio, dal riprendere del fare quotidiano, dallo scorrere della pagina Web. Ci appare sufficiente, questo o quel gesto. Come a dire: anch’io ci sto, anch’io sono acceso su questo dolore. E invero, spessissimo è una partecipazione sincera, per quanto possibile.

Che cosa però raccogliamo in questi raccoglimenti? Che cosa rimane, poi?

La “strategia del terrore” – in senso stretto e non come veniva intesa nei nostri Anni di Piombo – è più sottile, anche se si muove sullo stesso piano delle sue risposte, che almeno in questo sono plausibili. Sin dalla sua origine, il terrorismo rivoluzionario della Parigi oggi straziata, essa adotta un meccanismo disarmante, nella sua semplicità. Disarma cioè con le armi. Individua una persona di cui è noto il nome, oppure un gruppo di sconosciuti, e usa su di loro la Parola Definitiva, la morte. Il piano del simbolo, astratto per i distratti, si fa carne e sangue. Elimino te in quanto tu rimandi alla tua ideologia, alla tua appartenenza, alla tua religione, al sistema che ti ha generato e che sto combattendo.

Tu non sei padre, fratello, sorella o madre; non sei donna o uomo con emozioni, pulsazioni, bisogni, passato e desideri. Tu sei una vita da troncare. Perché qui sta il simbolo per eccellenza, l’interruzione del respiro, la mortalità del cuore intermittente.

Valse per Roberspierre stesso, suo ideologo. Valse per Umberto I, in quel caldo luglio che inaugurava il secolo breve; valse per Moro Aldo (come magistralmente rende Lo Cascio diretto da Bellocchio). Vale per i morti nella discoteca, per i bambini delle scuole nigeriane. Per gli intrappolati delle Torri Gemelle.
Non c’è alcuna astrazione, in queste morti. La morte – la Signora vestita di nulla di Gozzano – non è proprio qualcosa di etereo, impalpabile, pensato o pensabile, per quanto (o per questo) il ragionare occidentale (non solo) ci vada dietro da millenni.
La morte è il sangue sparso. Il corpo smembrato.

Il pontefice Francesco sta avviando un processo drastico, ben più radicale della riforma delle luride finanze vaticane. Sta rimettendo al centro quello che è stato marginale, almeno in alcuni dei suoi predecessori (ma qui ci sarebbe da approfondire): si sta focalizzando sull’ortoprassi, invece che sulla ortodossia. Mi pare che il suo incedere sia cauto, ma non per questo non riconoscibile: si tratta di ricordare che quel che si fa ha più forza di quel che si pensa. Che la Verità, se è tale, accade – anche senza essere pensata o persino riconosciuta intellettualmente come tale (“Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare?” Mt. 25).

E questa mi pare una buona risposta ai gruppi che hanno fatto dell’ortoprassi la cifra del proprio integralismo. Perché il pensiero estremista di matrice islamica – interpretazioni radicali della lettera coranica possibili nell’assenza più totale non solo di una unica gerarchia religiosa, ma persino di un coordinamento tra le interpretazioni teologiche delle sure – traduce in azioni sanguinosissime le proprie teorie manichee, o meglio ancora ritiene che la propria verità coincida con la morte del diverso. Agiscono solo su di un piano simbolico totalizzante. La Morte è Simbolo perché annulla le parole.

Se è vero che come occidentali abbiamo scelto la mediazione del pensiero e della ricerca di significato (ma Nietzsche aveva scoccato l’avvertimento), e questo costituisce un prezioso filtro tra quel che si ritiene vero e quel si ha da fare, è altrettanto vero che, immersi nella informazione globale, noi occidentali rischiamo oggi di rimanere solo sul piano dei significati pensabili. Astratti. Aria fritta, diceva Lombardi Vallauri, a noi imbranatissimi fucini, decenni fa.

E allora il linguaggio più efficace per rispondere in maniera decisiva all’alfabeto terrorista mi pare quello di affidarci anche noi all’ortoprassi. Non che non ci abbiano pensato anche quelli che stanno armando i cacciabombardieri… Aprendo così l’infinita questione del quando porre un limite alla tolleranza – di questo si discuterà, rischiando ancora e ancora di rifriggere l’aria, nei prossimi mesi. Il punto è, mi pare, che non si potrà trattare di una guerra onesta, di una guerra ultima. Troppe le speculazioni (speculare è anche pensare, rifarsi all’ortodossia quindi) che temo entreranno in gioco, se non sono già alla base dell’esistenza del cosiddetto Stato Islamico.

Il richiamo dell’ortoprassi è radicato nel nostro essere uomini, e quindi la guerra ci appare lecita, invocabile, necessaria. Azione scaccia azione. Morte scaccia morte?

Possiamo essere certi che l’occidente, che ha prodotto donne e uomini capaci di riconoscere la folle ortodossia jihadista e farsene carico (parlo dei giovani che son partiti dalla Francia o dall’Inghilterra), sia in grado di dare una risposta definitiva con un’azione militare? Su quale base? O vero, supponendo anche si tratti di una guerra trasparente, come difendere la presunzione che sia anche l’ultima?

Se fosse giusta, non ne potremmo parlare nei cosiddetti contenitori televisivi pomeridiani, non ne avremmo parole; se fosse trasparente e necessaria, le nostre italianissime e validissime imprese costruttrici di armi metterebbero a gratis a disposizione il proprio made in Italy, perché, data una guerra giusta e necessaria, gli operai lavorerebbero senza pretendere stipendio, per più di qualche mese, perché poi la gente accorrerebbe a contribuire ai loro e degli imprenditori bisogni primari, di propria sponte. Se la guerra è giusta, avrà un meraviglioso fronte interno.

Non so se ci sia stata una guerra di questo tipo. A leggere Meneghello, Fenoglio: sì. Qualcosa di liberatorio, di urgentissimo.
Ma adesso? Mi pare che la migliore delle ipotesi sarà quella di spostare i cattivi, dopo Al Qaeda, Al Nusra; dopo Al Nusra, l’Isis; dopo l’Isis, chi sa. E intanto noi a impegnarci sulla nostra sicurezza, sui nostri diritti, sul nostro stile di vita. Un fortino sicuro, meglio se anche elegante.
L’Isis appare la critica più efficace alla nostra cultura liberale. Appare a molti l’unica risposta vera, qualcosa di realmente rivoluzionario: l’uso strategico della tecnologia in ogni sua forma contro il sistema che l’ha inventata. Porre fine al Male col male stesso.
La guerra rilancerebbe la medesima logica, sposterebbe il problema di qualche anno, di una generazione.

A me pare che non resti altro che praticare un’altra ortoprassi radicale, si chiami essa virtù socratica, o Non violenza, o Evangelo, o socialdemocrazia, o Perfetta Letizia di Francesco d’Assisi. Praticare radicalmente una proposta radicale, che esiste già nella nostra storia. Nulla a che fare con i simboli – bandiere della pace o presepi a scuola – solo microazioni quotidiane, di comprensione, inclusione, ascolto. Pratiche di misericordia, di eguaglianza sostanziale.

I cinici diranno: sì, bravi bambini, così morirete felici.
Non sarebbe cosa da poco.

Appunti sull’Orientamento

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In vista della scelta per l’università,
durante la frequenza;in vista del lavoro,
per sopravvivere al lavoro.

http://orientamento.tumblr.com/

Il titolo viene da questa citazione di Etty Hillesum:
Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un tratto davanti a me ma arriva già in un altro mondo.

Apologia del tradimento

Declinazioni in ino
Sguardo bovino. E’ quello tipico del padre al parcogiochi, mentre spinge l’altalena o attende che la creatura sguazzi nella sabbia. Lo so perché lo vedo, e lo vedo perché mi ci specchio. Ebbene, anch’io faccio parte della nobile schiera di maschi adulti che accompagnano la prole al parco, e non solo il sabato o la domenica. Non è tutto: preparo la pappina, cambio pannolini, pulisco sederini, infilo il pigiamino… Le riviste patinate – quelle che addolciscono i quotidiani nazionali nella seconda parte della settimana – ci dicono che i padri sono cambiati, anzi che si tratta di una «rivoluzione antropologica» (“La Repubblica-D”, 10 settembre 2012): «fino alla fine del Novecento sopravviveva la vecchia figura del padre fisicamente e emotivamente distante dal bambino nel suo primo anno di vita, frutto di una società maschilista e patriarcale che considerava la cura, il care, un’esclusiva della donna», afferma il neonatologo Volta, che nel suo sito (vocidibimbi.it) confessa che se non fosse se stesso, vorrebbe essere sua moglie Monica.

Ecco, io non so se vorrei essere mia moglie e, per quanto colga l’affetto e l’ironia dell’espressione, non lo desidero per non soggiacere all’epiteto, oltraggioso per la grammatica e insensato per la pedagogia, di “mammo”. La fretta di catalogare, che talvolta sembra unico criterio adottato da chi compone gli articoli di giornale, ha creato questo vocabolo, che genera confusione invece di aprire nuovi spazi semantici. Il dottor Volta stesso ne è pienamente consapevole, perché, incalzato dal giornalista, sottolinea che «il padre non deve scimmiottare la madre. Deve trovare un modo suo di prendersi cura del bambino». Insomma, si tratta di uno stile di cura del figlio che, ispirato alla madre, viene però interpretato in modo pienamente e totalmente maschile. Ma perché allora schiacciare in genere la questione sulla mamma-con-la-o? Che ci sia un cambiamento nell’aria, è testimoniato dal moltiplicarsi dei testi, scientifici o meno, sulla figura paterna, sulla sua crisi, sulla trasformazione di una società – come direbbero femministe d’altri tempi – fallocentrica, in qualcosa di diverso, a prima vista più empatico, meno direttivo o impositivo. E come spesso accade, di fronte all’inedito scarseggiano le parole.
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Cosa resta dei padri?
Macondo se lo è chiesto in uno degli ultimi convegni per le famiglie, su ad Asiago nel settembre 2012. La domanda, carica del potenziale provocatorio tipico della titolistica associativa, giunge al termine di un’amara constatazione: il senso di comunità vacilla, da un lato, e dall’altro è venuta a mancare la continuità tra le generazioni. Le due cose vanno pensate insieme: fatichiamo a riconoscere dei luoghi in cui sperimentare il legame sociale, contenitori di persone e di senso che fungano da occasione per incontrarsi e costruire nuove narrazioni collettive; solamente in essi padri e figli possono parlarsi, scontrarsi, riconoscersi e infine differenziarsi. Ma non c’è già la famiglia, per questo? Qualcuno potrebbe domandare… Non è la famiglia infatti il luogo principe per l’incontro e anche per lo scontro? Non è la famiglia il laboratorio per sperimentare finalmente il conflitto? E se non fosse così?

A scuola, la storia è per lo più teoria di guerre, una polemologia nascosta. Sono di fronte alla sostanziale impreparazione di una delle mie classi a proposito del Risorgimento italiano e mi chiedo che cosa avrei potuto fare di più, dire meglio, schematizzare con maggior precisione. Li colgo in ansia, braccati da uno stress inguardabile in un adolescente: non è l’adrenalina di fronte ad una sana sfida, ma un imbuto di doveri, il più vicino dei quali è la cosiddetta “pagellina”. Apro la questione e presto qualcuna, in primo banco, svela l’arcano: se porto a casa le insufficienze mi «cavano la vita». Il punto sta qui: non ho fino in fondo la possibilità di affrontare con loro argomenti didattici, perché in questione è un sotterraneo conflitto irrisolto sul senso della scuola e dello studio, uno scontro congelato che riposa nel freezer di questa e di altre famiglie. I ragazzi vengono ammoniti, minacciati, giudicati, ma non sembra ci sia nessuno che litighi seriamente insieme a loro sulla gerarchia degli impegni, sulla priorità dei doveri.
«Il tuo lavoro è la scuola», si ripete. Ma se nel contempo, nelle azioni, comunico a mio figlio che non amo il mio lavoro, né informarmi, né capire il mondo che mi circonda anche attraverso un libro? Perché tutto questo dovrebbe essere per lei o per lui una cosa ovvia? «Perché studiare ti prepara al futuro» e quindi «te lo dico per il tuo bene». Ecco l’inganno: ti sto proteggendo, per questo ti impongo la strada.

La domanda non fa riposare
Prevale il legame simbiotico: di origine materna, necessario e fisiologico sino ai primi anni di vita, diviene poi una non voluta strategia di soffocamento. Per non soggiacere alla mia ansia di genitore per la tua felicità, sono costretto a costruire una campana di vetro intorno alla tua esistenza. Ti trattengo, ti mantengo, ti custodisco: devi fare quel che ti dico. Non c’è discussione sui possibili valori altri dei quali tu, in quanto essere umano adolescente, ti potresti far portatore. La simbiosi non è inefficace di per sé, ma diventa distruttiva se cade fuori tempo. Di qui la necessità di tornare a parlare del conflitto, che è il motore fisiologico di una relazione tra generazioni (e non solo) che sia sana, tema portante delle riflessioni di Daniele Novara e del Centro da lui fondato (www.cppp.it). Solo il conflitto può spingerci verso un legame creativo, una relazione che proietta verso l’esterno, che libera.

Conflitto… Si tratta quindi di un invito a litigare? Litigare in famiglia? In parrocchia? A scuola? Le domande a quanto pare si stanno moltiplicando. E porre una domanda, con il coraggio di chi vuol capire, di chi cioè non presume già di avere “la” risposta, significa già aprire un conflitto. Chi chiede, lo fa perché è interessato a quello che l’altro pensa, perché mette a repentaglio la propria visione del mondo, perché ha bisogno di completarla. E così facendo spariglia l’altrui visione, lo status quo. Altrimenti, è solo un’affermazione che per gentilezza viene corredata alla fine da un punto interrogativo.

Ecco: chi è in grado di domandare senza timore? Il bambino, quando entra nel tunnel dei “perché” e dei “che cosa è” e si fa insistente nel suo cercare la rete che chiarifichi gli eventi. La categoria della causa-effetto appare all’orizzonte dei due anni, quasi insieme al linguaggio, e se sei fortunato questo interrogativo non ti molla più. E poi l’adolescente, che chiede non solo per sapere ma per mettere in discussione la tua granitica sapienza del mondo. La quale spesso si rivela saccenza, se ci facciamo trovare impreparati, insofferenti, frettolosi, schematici. Socrate dedica ai giovani alcune tra le sue ultime parole: «più di uno sarà di chi vi accusa, gente che io trattenevo, e voi non ve ne siete accorti; e saranno più duri, quanto più saranno giovani, e voi tanto più ne sentirete il peso» (Apologia).AdoCarrello

Socrate non portava i jeans
Bambini e adolescenti cercano, così, per natura. Ma chiunque ha bisogno di un senso, foss’anche, come diceva Camus, per rispecchiarsi nell’assurdo. E a questa “domanda di senso” l’immaginario collettivo cerca risposta nella figura del vecchio saggio: è il nonno che, placido, fuma la pipa e osserva dalla sua sedia il moto circolare della famiglia. E’ il decano del gruppo, colui che ne ha viste tante e riesce a collocare la tua inquietudine come un passaggio necessario, drammatico, ma non distruttivo. Costituisce la riserva, la memoria del gruppo, e perciò sa di che cosa sta parlando la tua ansia, ma non deve tranquillizzare, perché poi, se solo dai tempo, sarà la vita a guarire. E’ il senatore, chi cioè può poggiarsi al bastone del suo essere senex per operare nel delicato compito di nomoteta, di legislatore. E’ lo starec Zosima per Aleksej Karamazov, il Gandalf di Tolkien, Albus Silente per Harry Potter, Mago Merlino per il piccolo Artù disneyano, Morpheus per Neo in Matrix, sino al prete solo e solitario, in Corpo Celeste, che finalmente fornisce un minimo orientamento a Martina.
La lista sarebbe lunga e l’intento non è quello, a questo punto, di contrapporre semplicemente queste figure maschili alla Fata Turchina collodiana, la Smemorina di Cenerentola o Flora, Fauna e Serenella della Bella Addormentata. Ma la tentazione è forte: se in questi casi infatti la “madre” buona, consolatrice e amorevole, per quanto anche severa, si prende cura del piccolo, negli altri il maschio rappresenta un riferimento sicuro ma che costringe alla solitudine della scelta.

Allora, data per certa la presenza materna, i nonni hanno sostituito i padri? Perché la letteratura e il cinema rincorrono la sapienza, le risposte di questo “padre non padre” che è il nonno? Che cosa accade in questo spazio creato dal salto di una generazione?
Un ulteriore elemento aumenta la complessità. Siamo nella società del forever young: la Chiesa dovrebbe farsi giovane per parlare ai giovani (eventi, musica, WEB); la Scuola dovrebbe svecchiare il corpo docente per ritornare ad essere efficace e agganciarsi al mondo attuale; la comunicazione nei media scoppia di colori, icone e di link, quasi avesse come interlocutrice solo la gioventù. Dell’anziano il corpo va monitorato, aggiustato, protetto dalla chimica medicinale, quando non restaurato con capelli e zigomi posticci, camuffato da giovane con le giacchette strette e i pantaloni alla moda. Le rughe rimangono solo nelle suggestive foto dei reportage dal terzo e quarto mondo: vecchi peruviani o tibetani, immagini in bianco e nero, qualcosa che c’era e non c’è più. Fossili.

La situazione appare quindi schizofrenica: abbiamo nostalgia di un “padre buono”, qualcuno che ci accolga per poi lasciarci al mondo, che ci consegni un messaggio di senso. Lo cerchiamo nell’antenato che lassù ha costruito la casa sulla roccia, che sappiamo dove trovare, ma poi, ridiscesi in pianura, ci manca qualcuno che ci accompagni nelle cose di ogni giorno. Dove sono i maestri che, come nelle botteghe artigiane, affiancano nelle difficoltà correnti? Dov’è la capacità di comunicare un mestiere ai novizi da parte di avvocati più grandi (ma non fuori gioco), di commercialisti con più esperienza (ma non in pensione), di insegnanti o presidi maturi (e ancora in ruolo), di parroci capaci di segnare la via ai cappellani, di datori di lavoro non ottusi? Non possiamo abbandonarci al loro sguardo, perché temiamo il tradimento. Perché loro non sono abituati a lasciar andare e noi non siamo abituati al tradimento e lo concepiamo come la fine di tutto.

Nel deserto, una via
Arturo Paoli è un esempio di “vecchio saggio”. La sua centenaria esperienza è in parte raccontata nella recente raccolta di scritti La pazienza del nulla. E’ qui che narra il suo decisivo incontro con il maestro dei novizi Milad, che lo introduce nella fraternità di Charles de Foucauld. Dice Paoli: «fu per me l’incontro con una persona assolutamente insolita (…). Sembrava veramente come l’uomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti (…) era l’uomo “del sì e del no”, “il resto viene dal maligno” (…). E quello che mi attirava di più era il suo rigore nei richiami all’essenziale e l’umorismo con cui commentava le goffaggini dei novizi, suscitando una incontenibile ilarità». Guardate: rigore e ironia, cioè insieme presenza ferma e presa di distanza. Ci sono, ma tu sei solo.

Se c’è qualcuno che può tradire – scomodando James Hillman – quello è il padre. Certo, anche la madre tradisce e può rifiutare la vita cui ha dato origine, ma nel farlo nega se stessa. Il padre è solo all’apparenza in una posizione più comoda. Luigi Zoja afferma che “tutti padri sono adottivi”, perché ciascun essere umano maschio adulto, portatore del seme della generazione, deve porsi radicalmente la questione di accettare come “sua” quella creatura così aliena e in totale simbiosi con la propria compagna. Ogni genitore maschio, in altri termini, è messo di fronte ad un individuo separato: il neonato, “sangue del suo sangue”, era in realtà corpo unico con la madre e poi, venuto alla luce, è corpo a sé, comunque e ancora estraneo. Il padre biologico è costretto ad una crisi, ad una decisione fondamentale: entrare o meno in relazione, accettare o meno il fatto che quella persona, che pure contiene il tuo patrimonio genetico, non è stata e non sarà mai una parte di te. Il padre può decidere se sopportare la contraddizione: una distanza che può essere colmata, ma che rimane tale; uno spazio vuoto che può essere misurato dalla lunghezza delle braccia in un abbraccio, ma che poi torna ad essere vuoto. Il padre deve scegliere di esserci e proprio perché deve sceglierlo conferma il suo poter non esserci, la sua assenza, che verrà vissuta come tradimento. Ma se è una persona che mi ama, cosa vuol dire che mi tradisce? Non sta agendo contro di me, ma mi sta decisamente mettendo sulla strada della piena autonomia. Lo strappo è necessario e se non avviene, il padre replica la simbiosi materna e il figlio rimane intrappolato. Ben venga allora un padre più empatico, capace in ultima analisi di riconoscere i bisogni dei figli, della compagna e propri, anche perché in fondo all’ossitocina non si comanda. Ma a questo nuovo padre è chiesto uno sforzo suppletivo: non perché divenga supplente della madre, ma perché nel porsi in relazione prepari il terreno di una feconda separazione.

[Scritto nell’autunno 2012; apparso su Madrugada, giugno 2015]

Uno sguardo senza eccezioni: Vivian Maier

vivian

Qualche anno fa, in questo post, feci cenno alla fotografa Vivian Maier.

Mi è stato segnalato questo lavoro di archivio dedicato a lei, e così sono felice di potervi indicare il link. Penso infatti sia una persona il cui sguardo è davvero da incrociare.

Mi scrive infatti Anthony:
I’m contacting certain website & blog owners who have written about Vivian Maier and asking them to help us achieve this mission by adding a link to Artsy’s Vivian Maier page. In addition to spreading the word about our Vivian Maier page, I believe your visitors would enjoy this content.

Et voilà!

Il 2014 letto (un anno di libri)

austen copia

(Illustrazione di Gipi) Lo scorso anno solare mi pare, così d’acchito, non del tutto soddisfacente, quanto a letture. Parlo del soggetto leggente (io) e non dell’oggetto letto.
In ogni caso, per darne conto ai posteri, divido i libri letti in tre categorie:

A. Non mi ricordo nulla di quello che lessi.
B. Qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure.
C. Come una puntina sulla sedia del prof.

S. Aleichem, La storia di Tewje il lattivendolo
J. Landsdale, Una stagione selvaggia (eB)
Byung-Chul Han, La società della stanchezza (eB)
T. Bernhard, Antichi maestri
P. Barnard, Nonna, ti spiego la crisi economica (eB)
V. Magrelli, Geologia di un padre
M. De Giovanni, Il senso del dolore
B. Fenoglio, Lettere
D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci
R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione
D. Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più
A. Giménez-Bartlett, Dove nessuno ti troverà
G. Pietropolli Charmet, Il futuro dei nostri figli
C. Castoriadis, C. Lasch, La cultura dell’egoismo
F. Dostoevskij, Umiliati e offesi
L. Rastello, I buoni
A. Bennett, Una visita guidata
P. Mastrocola, Non so niente di te
F. Garcìa Lorca, La casa di bernarda Alba
D. Marani, Lavorare manca
L. Sciascia, Il giorno della civetta
G. Moro, Contro il non profit
G. Scianna, Qualcosa c’inventeremo
M. Ferraris, Good bye, Kant!
A. Kristof, Ieri
E. Bernhard, Mitobiografia
F. Maino, Cartongesso
G. Parise, Sillabari (eB)
N. Ginzburg, La strada che va in città
G. Turus, Bioresistenze
L. Malet, 120 Rue de la Gare
L. Malet, Un ricatto di troppo
M. Serres, Non è un paese per vecchi
L. Malet, Il quinto processo
L. Malet, Il sole sorge dietro il Louvre
E. Borgna, Malinconia
F. Sagan, Un certo sorriso
P. Rumiz, Maschere per un massacro
M. G. Torrente, Il tempo della vita (eB)
G. Pietropolli Charmet, Giovani VS adulti (eB)
L. Pinna, Uomini e macchine
I.J. Singer, La famiglia Karnowski (eB)
I. D. Yalom, Il dono della terapia

Platone, il guru e gli strilloni

newsboyLo sguardo è quello di sempre: candido e provocatorio. Franz mi osserva sospeso per qualche istante e poi, come un eroe disegnato su di un vaso greco, scocca la freccia, preciso: «Prof vedo che ultimamente non scrive niente di suo sul blog, ma riporta solo cose altrui…». Colpito. Il mio tallone d’Achille di questo momento, e cioè il tempo, che è sempre tempo altrui.

E allora.
Pensavo, l’altro giorno, leggendo le belle cifre di Internazionale sul suo festival ferrarese (QUI i dati sull’interesse a mezzo tweet), alla potenzialità di legame sociale contenuta in queste occasioni: con l’occasione di ascoltare il punto di vista sul mondo di una certa persona (o di vedere, se son foto), incontro altre persone accomunate dal medesimo interesse. Poi, chi lo sa, nasce un collegamento, un appuntamento altrove, uno scambio di libri, un’associazione, un partito, una casa editrice…

Con questi pensieri in testa, inciampo nella “Bustina di Minerva” di Eco, da cui riporto queste parole (Eco sta parlando dei vari Festival di cui l’Italia è fiorita):

la gente (almeno, molta gente) non è stupida come pensano i produttori di trash televisivo, e gli editori di riviste a colori sulle affettuose amicizie di attrici e calciatori. Vogliono qualcosa di serio da mettere sotto i denti. Voi mi colmate di grandi fratelli? Ebbene, vorrei un poco di Platone. Sembra un’esagerazione, ma le cifre sono cifre: moltissimi vogliono sentirsi coinvolgere in esperienze “nutritive”. Giocherà anche l’elemento turistico, ma non è il turismo delle famiglie che vanno a vedere il Mulino Bianco (se non ci credete c’è, e ci vanno). E ci vanno anche moltissimi giovani, in parte quelli cui l’università del triennio sta dando meno di un tempo. Un altro elemento è che questa gente vuole incontrare persone in carne e ossa. Certo, se andate su Internet potete trovare i testi di molti di coloro che parlano ai vari festival, e forse potete persino vederli mentre si parlano addosso in televisione, e se vi sono piaciuti o dispiaciuti potete dirlo a qualche fantasma di corrispondente elettronico via Twitter o Facebook. Ma evidentemente non basta: c’è un bisogno profondo di contatti faccia a faccia, di vicinanza fisica. C’è anche del divismo? In parte sì, posso vedere in persona l’autore che amo e magari chiedergli un autografo e persino un “selfie”; ma in fin dei conti questi fan vogliono vedere un filosofo o un poeta e non una valletta.

Dunque la gente si muove, perché non si accontenta. Nemmeno di accumulare pagine da leggere sui tablet, che poi magari non leggeremo mai.
Severgnini, quando lo incontrammo nella scuola in cui faccio l’insegnante, ci parlò del “Five million club”, cioè della cifra di italiani che – in genere e generale – si informano. E’ un numero dolente, specie per questa fase storica in cui i giornali cartacei debbono reinventarsi, immaginando nuove combinazioni con soluzioni WEB (e non solo quelli che vendono di meno, ma anche il già citato, ottimo, Internazionale, come QUI ci spiega il suo direttore Giovanni De Mauro).

Ecco: io ho un problema allergico, che mi fa venire delle bolle in testa. Accade quando, la mattina in bicicletta, sfreccio davanti ai giornalai (a proposito, perché abbonarmi all’altrettanto ottimo Pagina99 se, pur spendendo [molto] di meno, in qualche modo tolgo lavoro ai giornalai, nella fattispecie a Fabio che mi procura ogni cosa uscita negli ultimi 10 anni, e contribuisco al losco mercato della logistica?) – beh insomma, non proprio sfreccio, perché faccio a tempo a leggere quelle cose di carta che stanno in piedi fuori dalle edicole e che mi pare si chiamino strilloni, come i ragazzetti di inizio secolo scorso, i newsboys. E quelle cose scritte a caratteri cubitali e immaginate dai più fetenti giornalisti (?) mi fanno venire le bolle in testa. Perché sono fatte apposta per solleticare la nostra parte peggiore e correre ad acquistare i sempre peggiori quotidiani locali, per abbeverarsi del sangue versato, delle rapine-finite-male, del 14enne/imprenditore suicida, del povero anziano trovato cinque giorni dopo.

E allora, a chi sono dedicati gli strilloni? Riguardano il Five Million Club? Oppure parlano alla pancia di qualche altro million di persone, che immaginano – loro, gli intellettuali – passare dal frigorifero pieno di cose non biologiche alla TV per guardare Uominiedonne?

Ebbene, in questa foga di ascoltare un pezzetto di Platone, mi sono recato ad un paio di appuntamenti in zona. Il primo, organizzato da Macondo, con Luigi Zoja, psicoanalista junghiano, a propositi di questo libro; il secondo, opera di Segnavie, per Nuccio Ordine e quest’altro libro. Due serate buttate via, che era davvero meglio stare a casa e rileggersi il Fedone.

Intendiamoci: si tratta di due persone illuminate e valide, che hanno davvero qualcosa da dire. Di Zoja ho amato “Il gesto di Ettore”, un libro decisivo per chiunque si appresti a diventare padre. Eppure quella sera, e non per sua volontà – ma nemmeno degli organizzatori, il vento del gurismo si è abbattuto su Bassano, spazzando via l’opportunità di capire il senso del libro e dell’occasione. Dopo un’attenta analisi delle possibilità e dei limiti del Sessantotto, Zoja ha imboccato una strada importante, ma del tutto secondaria in quel momento (questioni ecologiche e nemmeno troppo approfondite). Nel narrare le argomentazioni, condivisibili (anticipate tra gli altri in questo libro francese, un bel po’ di tempo fa), a proposito della necessità (camusiana, direi) di abbandonare le grandi Risposte, per cercare percorsi minimi di rinnovamento – le Utopie Minimaliste appunto, Zoja non ha fatto la cosa più ovvia: cedere il microfono alla platea e lasciare che venissero raccontate queste micro scelte rivoluzionarie. Che ci sono! Specie a Macondo.

Quanto a Ordine, la sala strapiena del Centro Papa Luciani, ha riprodotto il medesimo effetto-Guru. A sua discolpa devo dire che non sono rimasto oltre la prima ora – e non ho ascoltato lo cambio con Mieli. E però già mi bastava (e non solo a me… O forse era il richiamo di un bicchiere e una fumata in una sera di autunno?). La tesi è interessante (guardatevela), ma proprio per questo meritava argomentazioni serrate e non una serie ininterrotta di slogan contro cose magari vere – la mentalità mercantile che ci affoga – ma del tutto in linea, essendo appunto slogan, con tale mentalità mercantile. Pubblicità progresso.

Dunque, Platone. Se dobbiamo fermarci alle risposte, a tesi già confezionate, allora tanto vale leggere gli strilloni e i quotidiani di Padova. Anche se venissero da illuminate menti, da uomini e donne di ferrea morale e di spaziosa cultura, si tratta pur sempre di risposte. E non di domande. Il punto è che, ascoltata una proposta di ragionamento, dovremmo sederci in cerchio e poi parlarne, discuterne e litigarne perfino. Argomentare pro e contro fino a che non siamo stufi, ma argomentare e non affermare e poi ritirare la mano. Ma sciogliere insieme il nodo del pensiero, ascoltando Socrate e mettendolo alla prova, per poi accoglierne la conclusione, magari, o andarcene insoddisfatti a guardare la mariadefilippi.