Lamento dell’amore accecato
Io non so come stia
questa cosa che tutti non sanno cosa fanno
e fanno i figli
Io non so come sia
davvero esser stato mio padre
e di quelli simili a me.
Vi guardo da sopra il taccuino
inutile vergato solo
per il graffiare lubrico del pennino
solo per dire ci sono
e ancora vi guardo e vorrei
poter andare fumare
solo per dire non sono
per nulla d’accordo:
non è
che state scegliendo gli scarpini nuovi
né la pizza della domenica sera
non è
che siccome i lombi hanno dato
allora «tutto è lo stesso»
– solo l’infimo operaio della strada
può dirlo e sa quel che dice.
Non è concepire
senza aver prima concepito
il semplice fatto biologico
non consegna alcuna verità
anche le cimici procreano
e noi a divinizzare questi bambini
a ricamare tabelle dei loro bisogni
piani settimanali della loro non noia
a far vomitare il nostro portafogli
un qualche senso da darci
(Vi guardo e vorrei la mia
retribuzione, il mio senso
non meno imbarazzante
aberrante)
E poi penso che il senso lo da
obbedire alle cose:
i due anni anarchici
lo sconosciuto alunno che hai in casa
il gruppo che governa comunque
la menarchia assoluta
il caos del cervello che scoppia
e trasforma un animale in sapiens.
Le cose danno il limite
e loro ce lo chiedono da sempre.
E di qui
dal limite
vi guardo e aspetto la vostra crisi
la frantumazione dell’amore che
sembrava invincibile
invece solo cieco
si beava del perenne allattamento.
No, fare figli non è un merito
– lo sarebbe anche digerire bene.
Padova, 4 dicembre 2018