Che cos’è l’amor

Che cos’è l’amor
chiedilo al vento
che sferza il suo lamento sulla ghiaia
del viale del tramonto
all’ amaca gelata
che ha perso il suo gazebo
guaire alla stagione andata all’ombra
del lampione san soucì

che cos’è l’amor
chiedilo alla porta
alla guardarobiera nera
e al suo romanzo rosa
che sfoglia senza posa
al saluto riverente
del peruviano dondolante
che china il capo al lustro
della settima Polàr

Ahi, permette signorina
sono il re della cantina
volteggio tutto crocco
sotto i lumi
dell’arco di San Rocco
ma s’appoggi pure volentieri
fino all’alba livida di bruma
che ci asciuga e ci consuma

che cos’è l’amor
è un sasso nella scarpa
che punge il passo lento di bolero
con l’amazzone straniera
stringere per finta
un’estranea cavaliera
è il rito di ogni sera
perso al caldo del pois di san soucì

Che cos’è l’amor
è la Ramona che entra in campo
e come una vaiassa a colpo grosso
te la muove e te la squassa
ha i tacchi alti e il culo basso
la panza nuda e si dimena
scuote la testa da invasata
col consesso
dell’amica sua fidata

Ahi, permette signorina
sono il re della cantina
vampiro nella vigna
sottrattor nella cucina
son monarca e son boemio
se questa è la miseria
mi ci tuffo
con dignità da rey

Che cos’è l’amor
è un indirizzo sul comò
di unposto d’oltremare
che è lontano
solo prima d’arrivare
partita sei partita
e mi trovo ricacciato
mio malgrado
nel girone antico
qui dannato
tra gli inferi dei bar

Che cos’è l’amor
è quello che rimane
da spartirsi e litigarsi nel setaccio
della penultima ora
qualche Estèr da Ravarino
mi permetto di salvare
al suo destino
dalla roulotte ghiacciata
degli immigrati accesi
della banda san soucì

Ahi, permette signorina
sono il re della cantina
vampiro nella vigna
sottrattor nella cucina
Son monarca son boemio
se questa è la miseria
mi ci tuffo
con dignità da rey
Ahi, permette signorina
sono il re della cantina
volteggio tutto crocco
sotto i lumi dell’arco di San Rocco
Son monarca son boemio
se questa è la miseria
mi ci tuffo
con dignità da rey

Distensio animi, et intensio et plenitudo

The Clock by Christian Marclay (just after 3pm) from bob stein on Vimeo.

Il lavoro The Clock, presentato da Christian Marclay all’appena conclusa Biennale di Venezia, è un concentrato di attualità.
Messa così sembrerebbe una descrizione buona per un documentario su quanto accade di notevole oggi nel mondo o per una rappresentazione artistica capace di cogliere in un battito di ciglia lo Spirito del Tempo, come il noto Napoleone a cavallo osservato da Hegel.
E invece l’attualità, o meglio l’Attualità, di cui The Clock è una concentrazione è proprio l’istante attuale, il minuto-secondo che fugge inesorabile, il qui-e-ora-che-passa.
L’opera, un film della durata di ventiquattrore, è un momumento al tempo, o meglio alla sua misurazione umana, al suo coglimento da parte dello sguardo dell’essere autocosciente.

E qui sta il primo dato notevole: nell’esperienza comune del cinema, il dispiegarsi della storia, della trama, è elemento centrale. Seguiamo le vicende del protagonista o dei personaggi accessori ma necessari per la storia, che il regista presenta impiegando varie logiche temporali, dal flashback, al sogno, al desiderio di un futuro possibile, all’apparire contemporaneo di due o più situazioni. Ci interessa capire e sentire quel che succede.
E, nella tensione alla comprensione, raccogliamo di sfuggita gli indizi strettamente temporali che l’autore indica: l’orologio sulla torre, una sveglia mattutina, la richiesta ad un passante, il segnale orario della radio, l’esclamazione di un personaggio che sottolinea l’ora guardandosi il polso, perché è tardi o presto, o è proprio “l’ora x”.
Ai fini della trama, l’orario è utile, ma non essenziale, tanto quanto al contrario lo è il cosa possa mai accadere in quel momento.

Queste brevissime parentesi di misurazione temporale sono sparse nei milioni di chilometri di celluloide che l’uomo ha prodotto. Marclay ha preso su di sé il peso sisifeo e ha catalogato, con una precisione ossessiva, tutti questi momenti; quindi, con un lavoro di altissima sartoria, ha incollato i metri di pellicola in modo da realizzare una sorta di orologio sullo schermo. Le ore, i minuti e talvolta i secondi di un giorno vengono citati uno ad uno, utilizzando i film più vari. Se è facile ricordare l’orario del fatidico esperimento nel Ritorno dal futuro o memorizzare il segnale della sveglia in Ricomincio da capo, esistono miliardi di altre citazioni temporali che passano inosservate e che l’artista recupera per noi.

L'”immagine mobile dell’eternità“, come chiamava il tempo Platone o l’artistotelica “misura del movimento secondo il prima o il poi”, la distensio animi di Agostino o il nach-ein-ander kantiano: il tempo è una domanda tra quelle che la filosofia si pone con maggior radicalità, da Talete sino a Heidegger e oltre. Che cosa esso sia e perché non possiamo pensarci senza di esso. Noi siamo tempo: uno dei mezzi artistici di comunicazione che meglio ci raccontano – il cinema – rappresenta il tempo con quella sua essenza di istanti immobili avvicinati l’uno all’altro. A pensarci, è paradossale: la pellicola è costituita da tanti fotogrammi, tante micro fotografie che congelano un istante. Eppure noi riconosciamo in essa la vita che si dipana in movimento. Marclay erige un momumento a tutto questo, con un lavoro che andrebbe proiettato di continuo nei corridoi delle scuole o nell’atrio delle stazioni: nell’era che vede la lenta scoparsa degli orologi, sostituiti dal cellulare, il grande schermo ricorda inesorabile la nostra dipendenza dai piccoli schermi, cioè dal racconto aritmetico degli attimi della nostra esistenza.

In particolare
cfr. questa licenza.
(e grazie a Luca per la segnalazione e a Betta per il link youT)

No taxation without representation

Lo slogan del titolo è arcifamoso, e il princìpio che esso enuncia non è l’unico in nome del quale dovremmo appoggiare il cosiddetto “voto degli stranieri”. Anzi, proprio perché “straniero” è una parola che dobbiamo sottoporre a disoccupazione, il voto di domenica prossima ha un senso ideale.

Così lo spiegano Paolini, Segre e Bonsembiante.

NOI SIAMO TUTTI QUI
Non è una domenica qualsiasi quella che Padova si appresta a vivere e celebrare
questo 27 novembre.
Il Comune ha indetto le elezioni della Commissione per la rappresentanza dei cittadini
stranieri, il cui Presidente farà poi parte ufficialmente (sia pur senza diritto di voto) del
Consiglio Comunale della città.
Domenica tutti gli oltre 30mila cittadini stranieri residenti a Padova potranno andare ad
esprimere il loro voto nei locali della Fiera; potranno esprimere e veder riconosciuta la
loro partecipazione a quella che per la gran parte di loro è ormai una nuova e stabile
cittadinanza.
E’ un atto che non può essere vissuto né come accidentale né come puramente
formale. E’ un momento di reciproco riconoscimento: io sono qui e posso prendere la
parola.Tu sei qui e puoi ascoltarmi. Io esisto in questa società, in questo tempo e mi
viene chiesto di mettere in gioco il mio ruolo democratico di cittadino, mi viene chiesto di
aiutare la costruzione di una convivenza civile che non devo supplicare ma che posso
agire. Io straniero divento parte del tessuto sociale della mia città. Tu italiano puoi
finalmente conoscere la mia opinione.
D’altronde, lo ha detto chiaramente anche Napolitano, è ormai inaccettabile pensare di
continuare a costruire e gestire la vita democratica del nostro Paese senza creare
occasioni di dialogo e inclusione multiculturale non solo informali, ma anche ufficiali. La
decisione del Comune di Padova non può che essere letta come uno stimolo
coraggioso all’attuazione di due riforme necessarie : l’introduzione del diritto di voto
amministrativo dei cittadini stranieri residenti in Italia e l’introduzione dello ius soli nella
legislazione sul diritto di cittadinanza.
Il voto di questa domenica  può per questo diventare una cerimonia laica per celebrare
la nascita di una città e di una società più aperta e meno vittima di facili demagogie
xenofobe.
Certamente non può e non deve rimanere iniziativa isolata e di facciata, ma ha in sé un
grande valore politico e culturale.
Non c’è più spazio per i professionisti della paura, per chi continua ad alimentare facili
paure al solo scopo di mietere consensi elettoriali. Sono vecchi e noiosi tromboni che
tengono il Paese incollato ad una chiusura anacronistica e controproducente.
Padova, nel cuore di una delle regioni più multiculturali d’Europa, può lanciare un
segnale forte di cambiamento: non abbiamo più paura, ma siamo pronti a vivere il
cambiamento. E per farlo abbiamo bisogno di conoscere e ascoltare le opinioni dei
nuovi cittadini, dei nuovi elettori.
Perché ora non siamo più soli, ma siamo tutti qui. Insieme.
Ci auguriamo che siano molti i cittadini stranieri residenti a Padova che andranno a
votare.
E ci auguriamo ugualmente che siano molti i cittadini padovani che celebrino questo
importante momento invitando  i loro vicini di casa, compagni di studio, colleghi di
lavoro, collaboratrici domestiche, gestori di bar e negozi, operai, ristoratori,
commercianti, infermieri, benzinai, parrucchieri e amici ad andare a votare.
Buona domenica a tutti.
Andrea Segre, Marco Paolini e Francesco Bonsembiante

 

oggi

Novantacinque anni fa nasceva, a Coderno, frazione di Sedegliano, in Friuli,
Davide Maria Turoldo.

 

 

 

 

 

 

 

Canta il sogno del mondo
di Davide Maria Turoldo

Ama
saluta la gente
dona
perdona
ama ancora e saluta
(nessuno saluta
del condominio,
ma neppure per via).

Dai la mano
aiuta
comprendi
dimentica
e ricorda
solo il bene.

E del bene degli altri
godi e fai
godere.

Godi del nulla che hai
del poco che basta
giorno per giorno:
e pure quel poco
– se necessario –
dividi.

E vai,
vai leggero
dietro il vento
e il sole
e canta.

Vai di paese in paese
e saluta
saluta tutti
il nero, l’olivastro
e perfino il bianco.

Canta il sogno del mondo:
che tutti i paesi
si contendano
d’averti generato.

But don’t try to talk to me

But don’t try to talk to me
I won’t listen to your lies
You’re just an object in my eyes
You’re just an object in my eyes
(The Cure,  Object, 1978)

Va beh: nel ’78 avevo cinque anni e ascoltavo la musica di mio papà, Bach. Ma alle scuole superiori ho avuto una fase, se così possiamo dire, dark. Adesso forse si definirebbe goth che sta per “gotico”: prevalenza del nero, aria depressa, bassa motivazione nei confronti di qualunque cosa e di chiunque, maniche lunghe a coprire le mani. Col popolo dark non potevo essere però confuso: troppo ansioso per permettermi il nichilismo, troppo in carne per assumere l’aria giusta, quella dell’emaciato esistenzialista senza-Sartre.
Mi ha colpito il fatto che più di uno dei miei studenti e delle mie studentesse di quinta si sia posto il problema di che cosa votare alle passate elezioni amministrative, o al referendum. Mi ha colpito perché i miei diciotto anni erano mescolati a quelle fosche atmosfere adolescenziali e mi coglievano del tutto sprovveduto sul piano politico. Mi ha colpito perché talvolta anch’io rischio di cadere nella vulgata secondo cui “i giovani non si interessano di nulla, men che meno di politica”. Giravano per la classe fogli stampati da internet, con tutti i programmi dei candidati. Qualcuno se li è letti per filo e per segno, prima di andare al seggio.
La sorpresa è proseguita quando, parlandone, è emerso che questa frangia consapevole non disdegna il voto disgiunto: centrosinistra per le europee, centrodestra per le amministrative. Una sorta di attenta ricerca della persona di cui potersi fidare, al di là del colore, dello schieramento, delle ideologie. Qualcuno intuisce che sia questa la strada della morte del partitismo.

Inexperience sweet delirious
Supernatural superserious
wow!
(R.E.M., Supenatural Superserious, 2008)

Partitismo o personalismo? Gli analisti osservano la scena italiana e registrano quotidianamente sui giornali l’apporto dei cosiddetti “vent’anni di berlusconismo”. Il mio pensiero corre subito alla scena europea, o addirittura mondiale, per cercare di dare senso al quadro. Perché mi pare evidente che in Italia ci siamo come ammalati, abbiamo succhiato un morbo funesto, che ci costringe subito a schierarci pro o contro questa persona. E così l’opposizione, qualsiasi colore sbiadito abbia, non pare costruire parole e pensieri alternativi, ma fa da sponda all’innominabile. Quando parlo di “alternativi”  non intendo quindi opposti e contrari a lui, ma capaci di stare su da soli, e per tanto decisamente nuovi. E guardando oltre – già Blair, Zapatero, Obama, in parte Merkel – ho l’impressione che come in ogni tempo di crisi, emergano figure più o meno forti: in questo senso abbiamo anticipato i tempi, come già successe alla fine del primo conflitto mondiale.
L’analogia con quell’altro Ventennio viene del resto invocata da più parti, alla ricerca delle trappole di un nuovo totalitarismo. A me pare che la più profonda somiglianza stia nell’assuefazione con cui il cosiddetto popolo italiano accetta gli attori della scena politica.
C’è un certo interesse, nelle classi quinte, per il periodo fascista e osservo come l’attenzione si faccia più acuta quando cerco di spiegare come in determinate fasi storiche il Parlamento subisca una sorta di svuotamento di potere. Il fatto che anche oggi si riconosca senza troppi drammi che gli onorevoli sono troppi e che il loro numero vada tagliato non è colto tuttavia come un segno cupo: in realtà – come allora – prevale la nausea per la sfera pubblica e quindi ben venga uno sfoltimento di teste e di stipendi. Qualunquismo a go-go?
Si, se pensiamo al fatto che l’unico percorso che pare più efficace per mettere alle strette questo governo è quello di indagare le frequentazioni erotiche del premier. Senza però pensare che esse destano meraviglia e invidia in molti dei maschi italiani, gli stessi che cliccano sui sederi nudi nelle pagine web dei medesimi giornali che per altro invocano lo scandalo. Come sempre c’è qualcosa che tira di più di un carro di buoi.
Ma qui non sta l’alternativa, e il fichista di Arcore non cadrà per questo. Ancora analogie, perché il comportamento è il medesimo di quell’altro “premier”, come ricorda Meneghello in Fiori italiani, facendo riferimento al direttore del quotidiano per cui giovanissimo scriveva.
A Mussolini, che chiamava il Professore, riconosceva una dote suprema, di essere stato «un grande regista»: ma ora gli era capitata la sventura di cadere in mano a una donna che gli succhiava le energie, letteralmente, con la bocca; diceva che questa donna chiamava il Duce Lulù.
Lulù o Papi, non c’è molta differenza. Ma Mussolini non cadde per le sue abitudini sessuali.

Cogliere segni

Più di una volta mi è capitato che uno studente o una studentessa mi abbia detto, facendomi arrossire: si candidi, prof, io la voto! Beata ingenuità? Eppure è proprio questo il fatto: cercare persone di cui fidarsi.
Nel paradigma democratico nel quale siamo inseriti è necessario proprio fare attenzione ai meccanismo di creazione della fiducia, e su quali basi intellettuali ed emotive la fiducia dei singoli si fonda. Mi pare che il percorso sia lunghissimo, e fondamentalmente apolitico: non è l’orizzonte pubblico quello su cui incidere, ma la frequentazione di uomini e donne a tu per tu. Il Partito Democratico deve ricominciare dai quartieri, se davvero ha qualcosa da far dire a qualcuno.
E per far questo deve rinunciare alla caratteristica spocchia dei militanti cattolici e di sinistra, quella per cui c’è qualcuno che possiede la verità e si piega per concederla al popolo bue. Ricordo un incontro in una sperduta parrocchietta fuori Padova, un consiglio pastorale in cerca di formazione, dodici-quindici persone tra i cinquanta e i settanta. Si era allora candidato un noto direttore di quotidiano, di larghissime forme e di strettissime vedute, sulla base della “difesa della vita”. Ebbene, quale terreno migliore di un gruppo di parrocchiani? Eppure quelle stesse pasionarie di Cristo mi fecero caldamente presente che non si sarebbero lasciate fregare!
Altroché popolo bue. Si tratta di far emergere con pazienza quello che già c’è: un misto di buon senso che nasce dallo svegliarsi alle cinque per andare al lavoro, di capacità di cogliere il valore delle persone, di quella forza che ha la meglio quando tacitiamo per un attimo le ansie indotte e ascoltiamo le nostre paure. Davvero, c’è. E’ quella resistenza fisiologica che non ama gli “uomini forti”.
IL PRESIDENTE ha una caratteristica che balza agli occhi di chiunque lo avvicini: mentre gioca a bocce o beve birra, durante la notte o quando copula; persino nelle sedute parlamentari che presiede da quando si è verificato il gran cambiamento. Più di un movimento delle sue mani lascia trasparire questa sua caratteristica, inspiegabile a tutti, e che tuttavia appare così evidente da non sfuggire nemmeno ai profani. Si sostiene che la sua origine vada ricercata in un processo che non si può, né si vuole, più arrestare. Si richiamano alla memoria momenti in cui si sono percepiti fenomeni che potrebbero averla determinata. In realtà tutti sanno di cosa si tratti. Nel timore di poter essere chiamati a risponderne, evitano di parlarne o discuterne in pubblico. Anzi, confondono accuratamente le tracce. Ma non la si trova solamente nella coda dell’occhio del presidente. C’è anche in altri punti del suo corpo, opulento e inquieto. Nei suoi stessi sogni. In chiunque la riconosca produce una tensione che col tempo si tramuta in contagio. Sino ad esserne invasi. Non è nient’altro che la brutalità“. (Thomas Bernhard, Eventi, 1969)

[questo è un mio Pianoterra del 2009 – m’è parso attuale]