Lui sta lì, aggrappato in alto, gli occhi semichiusi nella vampa d’eterno mezzogiorno, sognando latitudini arancioni perfettamente asciutte, e intanto i succhi profondi della terra, che comunicano misteriosamente con le correnti sottomarine, i sali profondi, i bracieri del cuore del pianeta, si mescolano ribollendo e prendono la rincorsa verso l’alto, verso la morsa zuccherina che promette di sbocciare, estrema e incoronata di spine, sugli angoli imprecisati dell’isola.
Lui dirompe all’improvviso da una crepa del tetto, come una domanda verde che non si può eludere ma che non richiede risposta che non sia uno spinoso silenzio. Lui segna il dolente cammino delle trazzere, le stazioni della via crucis perenne che il sole e gli uomini compiono di secolo in secolo, da un capo all’altro della giornata, dell’isola, della storia.
Lui s’accorda spontaneamente alla frenesia intermittente delle cicale e persino alla mano di calce che il profondo silenzio di mezzogiorno stampa sulle cose.
Non s’esprime in odori o allettamenti, non cerca nient’altro che non sia il proprio sforzo interno, la camera segreta nella quale nutre i gialli zolfati, i porpora, gli smeraldini, i vinaccia.
Se tu ci credi, e conosci l’arte dei tagli in croce, e non t’importa delle spine, e tolleri migliaia di noccioli impastati alla polpa di paradiso, allora la morderai tutta, la Sicilia”.
Elogio del fico d’india di Manginobrioches
“Perché è un frutto impossibile: nessuno ci crederebbe.
Ha una buccia fatta di spini e centinaia di noccioli duri. E’ selvatico, ostile, non chiede che d’essere lasciato in pace a prendersi i colori del sole, dallo zafferano al violetto a un bianco di pistacchio e guerra civile, al verde borraccia e limatura d’isola della sua pianta.
Lui sta lì, aggrappato in alto, gli occhi semichiusi nella vampa d’eterno mezzogiorno, sognando latitudini arancioni perfettamente asciutte, e intanto i succhi profondi della terra, che comunicano misteriosamente con le correnti sottomarine, i sali profondi, i bracieri del cuore del pianeta, si mescolano ribollendo e prendono la rincorsa verso l’alto, verso la morsa zuccherina che promette di sbocciare, estrema e incoronata di spine, sugli angoli imprecisati dell’isola.
Lui dirompe all’improvviso da una crepa del tetto, come una domanda verde che non si può eludere ma che non richiede risposta che non sia uno spinoso silenzio. Lui segna il dolente cammino delle trazzere, le stazioni della via crucis perenne che il sole e gli uomini compiono di secolo in secolo, da un capo all’altro della giornata, dell’isola, della storia.
Lui s’accorda spontaneamente alla frenesia intermittente delle cicale e persino alla mano di calce che il profondo silenzio di mezzogiorno stampa sulle cose.
Non s’esprime in odori o allettamenti, non cerca nient’altro che non sia il proprio sforzo interno, la camera segreta nella quale nutre i gialli zolfati, i porpora, gli smeraldini, i vinaccia.
Rifiuta il concime, perché tutto gli è concime: gli strati della terra seminati a sudore, le ossa, la polvere di città e nomi distrutti, le spighe dei remoti granai, il greco e poi il latino dei conquistatori, il bronzo vecchio delle monete col profilo dei tiranni, i carri degli dei, l’orlo di ruggine delle battaglie consumate, il grano saraceno, le bifore, il malocchio, i piedi di Cristo, le alghe e i relitti portati dalla corrente, la peste, la dottrina, i galeoni spagnoli, gli agrumi che ripetono il sole, il falcetto sofista, portella della ginestra, l’uva blu delle vigne, la fatica, due colpi di fucile nell’assordante rombo della canicola, gli scuri chiusi, i santi dagli occhi fosforescenti, i morti di pasta di mandorle, gli agnelli di pasta di mandorle, i morti agnelli che belano in tutti gli angoli dell’isola.
E’ un frutto onnivoro, persistente, insondabile.
Se tu ci credi, e conosci l’arte dei tagli in croce, e non t’importa delle spine, e tolleri migliaia di noccioli impastati alla polpa di paradiso, allora la morderai tutta, la Sicilia”.
http://manginobrioches.myblog.it/archive/2004/10/20/elogio-del-fico-d-india.html